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Ernesto D. Bretscher
Nel 1959 mio padre, chiamato da Dio, lasciò la natia Svizzera con la sua famiglia per stabilirsi in Calabria come evangelista pioniere. Io sono dunque cresciuto in un ambiente “missionario”.
A lui si sono aggiunti diversi altri, uomini e donne, che si consacravano anima e corpo all’opera del Signore. Quei cari fratelli si impegnavano con tutte le loro forze nel diffondere la Parola di Dio in una terra dove il cattolicesimo era diventato vero e proprio paganesimo. Le attività evangelistiche e pioneristiche erano tante. Ho visto mio padre e i suoi collaboratori muoversi insieme nel lavoro – subendo il rigetto, gli scherni e l’opposizione della gente – e insieme rallegrarsi quando qualche anima si convertiva o fu possibile aprire un luogo di culto. Questi uomini e donne erano animati da un grande obiettivo: portare le anime a Cristo.
Notai pure quante tensioni, quanti fraintesi, quanti sacrifici dovevano sopportare a causa delle differenze di cultura e di carattere, nei modi di essere e di fare. Ma per loro, l’importante era continuare a lavorare! Il prezzo da pagare in incomprensioni, difficoltà nei rapporti, delusioni e amarezze, non era tenuto in considerazione. Erano dei veri soldati di Cristo!
Quello che hanno fatto questi uomini e donne, molti dei quali stranieri, in una terra a loro ostile, merita lode e ammirazione. Ma… mancava loro una cosa per poter raggiungere pienamente il loro obiettivo: non conoscevano le norme che regolano il lavoro di squadra.
Ciascuno infatti conservava la propria individualità, il proprio modo di essere, la propria visione, la propria cultura, senza badare molto a voler capire, complementare, sostenere e servire l’altro. Veniva a mancare spesso anche la fiducia e la sottomissione nei confronti del “caposquadra”.
Attivismo
Fu in questo contesto, dunque, che si sviluppò anche il mio ministero: un po’ pioniere, un po’ evangelista, un po’ pastore, ma segnato da un forte individualismo e da uno spiccato spirito d’indipendenza. Già all’età di sedici anni predicavo sulle piazze, nei mercati, sulle spiagge e per le case. A diciotto, formai un primo gruppo di credenti in un paese dell’entroterra calabrese, “dimenticato” da tutti; e a ventuno mi trasferii, insieme ad una coppia di missionari olandesi, in un nuovo campo di lavoro nella città di Reggio Calabria.
Per tre anni e mezzo, evangelizzammo in tutta la città – per le strade, sulle piazze, nelle case – cercando di arrivare in un modo o nell’altro ad ogni cittadino: l’attivismo era all’ordine del giorno! E così nacque una comunità. Ma, pure lavorando insieme, io conservavo la mia “linea” e i miei amici la loro. Continuai ad essere caratterizzato da un forte individualismo e difficilmente mi esponevo alla correzione. Quello che contava per me era lavorare, lavorare sodo per il Signore, come io pensavo fosse più giusto, cercando cioè di portare quante più anime possibili alla fede.
Nel 1975, io e mia moglie sentimmo una chiamata per un’altra città – Salerno – dove presto ci trasferimmo. Anche qui ci mettemmo a lavorare, questa volta da soli, e dopo solo sei mesi, già potemmo iniziare delle riunioni in casa. A un anno dal nostro arrivo, aprimmo un locale di culto e nasceva la “Comunità cristiana di Salerno”.
Mi ero dato da fare, avevo una vita di preghiera, ero il numero uno della situazione, tutto mi sembrava essere sotto controllo e, per il rapporto che avevo con Dio, mi sentivo oltremodo sicuro. Ma, improvvisamente, alcuni dei nuovi fratelli cominciarono a notare delle incoerenze tra la mia predicazione e il modo di dirigere l’opera nascente. Cercarono (qualche volta, magari, in maniera un po’ maldestra) di comunicarmi le loro perplessità; ma io, quasi insensibile a quanto stava accadendo e sicuro del mio rapporto con Dio e della Sua guida, continuavo “a modo mio” nel mio impegno evangelistico.
Finalmente, un giorno, tutto quello che avevo costruito mi rovinò improvvisamente addosso.
Ne rimasi sbalordito: cosa era successo? Dove aveva ceduto il “fondamento”? Andai in crisi, volevo abdicare, mi sentii sconfitto. Non avevo la forza di riprendermi: la maggioranza delle persone che avevano costituito la comunità se ne erano andate e tutta la mia sicurezza era in frantumi. Come era possibile che il Signore permettesse un simile fallimento?
Soccorso
Ma Dio, nella sua misericordia, mi tese la mano: una mano che, malgrado tutta la mia confusione, seppi afferrare. Egli mise al mio fianco un uomo, Chris Chilvers, che seppe insegnarmi cosa volesse dire essere “membra del corpo di Cristo”: cioè, che significa perdere la propria indipendenza e autosufficienza – pur conservando le proprie caratteristiche – per vivere nell’interdipendenza con altri credenti. Non possiamo agire, operare e costruire da soli, senza le altre membra del Corpo, perché noi non siamo tutto. Abbiamo, sì; delle peculiarità nostre; ma queste da sole non corrispondono a tutte le esigenze del Corpo. Ecco, in sintesi, il suo messaggio.
Ed io lo accolsi. Sentivo ormai i miei limiti, la mia solitudine ed anche la mia grande insicurezza; sentivo il bisogno di essere circondato da uomini che mi amassero e mi apprezzassero, non solo per ciò che sapevo fare, ma semplicemente per quello che ero. Chris mi aveva offerto il suo amore, la sua amicizia, la sua lealtà e le sue premure. L’unica difficoltà derivava dal fatto che viveva in Inghilterra, a 2000 Km di distanza …!
Malgrado questo, riuscì a starmi “vicino” per diversi anni, consigliandomi, incoraggiandomi, seguendomi epistolarmente e per telefono e venendomi a trovare per ben trenta volte. Sacrificava impegni, famiglia, tempo e denaro per me … inizialmente, solo per me. Cominciai allora a capire quale fosse la qualità dei rapporti che Dio vuole tra di noi!
Intanto, il Signore mi diede grazia di ricostruire una comunità sulle macerie della precedente, seppure con tante insicurezze, con il timore di sbagliare nuovamente e con le idee poco chiare. Essendo stato molto ferito; ora mi sentivo vulnerabile; così, per paura di un nuovo crollo e volendo edificare bene, mi lasciai “bloccare” dai mille problemi pastorali, perdendo a poco a poco la mia visione. Diverse persone che si inserivano nella comunità erano dei soggetti proprio difficili, per non dire “impossibili”! Inconsapevolmente mi caricavo di tutti i loro problemi, ed iniziarono le emicranie! Mi capitava a volte di perdere la pazienza e di trattare qualcuno con troppa durezza, oppure, al contrario, di lasciar correre certe situazioni per la stanchezza accumulata.
La forza dell’unione
Intanto avevo fatto la conoscenza di Giovanni, Geoffrey, Emilio e di altri fratelli, con i quali stava crescendo un rapporto di reciproco amore, amicizia e stima. Notai che il confronto con loro mi arricchiva, mi benediceva, mi apriva nuovi orizzonti: era per me come ossigeno puro! Avvertivo di essere entrato in una fase nuova. Quello che avevo vissuto con Chris, ora avrei potuto viverlo con dei fratelli qui in Italia, addirittura a poche decine di chilometri di distanza.
Per diverso tempo il Signore ci parlò dei rapporti di amore, dell’unità di cuori e di menti, per poter costruire una chiesa che assomigliasse al progetto tracciato nelle Scritture. Poi, cominciò a parlarci di funzioni, ruoli e ministeri in seno alla chiesa; e questo mi fece scoprire sempre di più i miei doni, ma anche i miei difetti e i miei limiti.
Intanto la comunità di Salerno, benedetta dal rapporto sempre più forte che vivevo con questi fratelli, si andava consolidando. Improvvisamente, il Signore cominciò a proporci il discorso di una “squadra di ministeri” – quelli di Efesini cap. 4 – che potessero completarsi reciprocamente ed operare insieme per la crescita delle chiese. Il discorso cominciò a tradursi in realtà quando Emilio e Geoffrey si trasferirono a Caserta per unirsi a Giovanni e collaborare strettamente insieme.
Nuovi orizzonti
Un giorno, il Signore parlò anche a me in maniera sorprendente ed improvvisa. Non ci fu nessuna pressione esterna, solo la Sua voce, come un fulmine a ciel sereno, che mi chiamava a lasciare la realtà in cui mi trovavo per unirmi alla squadra che già si andava formando a Caserta.
Devo confessare che, considerando la cosa, mi sono posto tanti interrogativi. Anzitutto, l’ancor giovane comunità che lasciavo sarebbe riuscita a sopravvivere senza di me? I nuovi responsabili erano all’altezza del ruolo che improvvisamente sarebbe gravato su di loro? E se la comunità avesse finito per sgretolarsi? Mi vennero i brividi!
E poi, entrare in una squadra non sarebbe forse diventato restrittivo per il mio ministero? Già da quindici anni servivo il Signore in maniera praticamente indipendente: potevo veramente fidarmi che la scarpa non mi sarebbe andata troppo stretta? La perdita della mia libertà individuale, il fatto di dover rendere conto in maniera più concreta della mia vita e del mio ministero e di operare entro i limiti ed i confini impliciti in un lavoro di squadra, non avrebbe forse comportato per me ulteriori frustrazioni, delusioni e scoraggiamenti? Avevo per caso preso troppo alla lettera i discorsi di Giovanni 17, 1 Corinzi 12 ed Efesini 4?!
Per quel che riguardava la comunità, non potevo certo garantire nulla: dovevo solo fare un salto di fede. Se questa nuova chiamata veniva veramente da Dio, Egli avrebbe sicuramente provveduto per la comunità, equipaggiando i neo-responsabili con la necessaria saggezza. Riguardo al mio ministero, invece, già mi sembrava non essere più quello a cui Dio mi aveva un tempo chiamato. Forse avrei avvertito un senso di ristrettezza entrando nella “squadra”; ma c’era una garanzia perché la cosa potesse avere successo: i nostri rapporti, ormai forti e già collaudati da alcuni anni. Eravamo veramente amici, ed era certo che nessuno di noi avrebbe “calpestato” l’altro. Eravamo lì per servire, servire la casa di Dio con più efficacia.
E, anche se questo passo significava dover riconoscere il ruolo del “caposquadra”, e quindi dover aver fiducia nella saggezza delle sue decisioni, sapevo ormai per esperienza che era un uomo di grande umiltà, fedele e leale, aperto ad ascoltare gli altri e a ricevere correzione. Era un’esperienza che poteva avere successo: valeva la pena tentare! Dopotutto, leggendo gli Atti degli Apostoli, dovevo rendermi conto che anche gli apostoli si muovevano in squadra e svolgevano un ruolo di coordinamento degli uomini che lavoravano con loro: altri apostoli, pastori, profeti, evangelisti ed insegnanti. Forse proprio in questo ambiente sarei potuto diventare quello che Dio mi chiamava ad essere!
Nel 1984, dunque, mi trasferii a Caserta dove aveva sede la “squadra”. Oggi, a distanza di tre anni, credo di poter già fare un bilancio preliminare di come vanno le cose. I nostri rapporti sono più saldi che mai, la nostra amicizia è davvero profonda. Stiamo diventando sempre di più “di un solo cuore e di un’anima sola”, e avvertiamo su di noi una grazia e un’unzione sempre maggiori (cfr. Atti 4:32). Sembra di avvertire del continuo l’approvazione del Signore per quanto già viviamo e per quello che stiamo ancora imparando a mettere in pratica.
Assestamento
C’è stata tutta una fase di assestamento: i ruoli andavano definendosi con sempre maggiore chiarezza, a mano a mano che emergevano i nostri doni e i nostri limiti. Non è stato sempre facile capire come funzionare insieme in maniera ottimale, ma credo che ora stiamo raggiungendo dei risultati davvero incoraggianti. Ci complementiamo reciprocamente sempre meglio, ci sosteniamo a vicenda, ci serviamo l’un l’altro e tutta la chiesa.
Siamo tutti cresciuti nella rivelazione, nella visione, nella comprensione e nella sensibilità. Ci siamo arricchiti l’un l’altro, e beneficiamo della correzione e della riprensione reciproca, senza sentirci feriti o fraintesi. Non c’è mai stato fra di noi alcun motivo per sentirci trattati ingiustamente dall’altro.
Non è stato sempre tutto facile, ma ci siamo sempre trovati bene insieme, anche perché abbiamo deciso di non sospettare mai il male e di non serbare rancori. Inoltre, ho notato che, grazie al nostro stare insieme e operare insieme, stiamo tutti cambiando, incluso il “caposquadra” o apostolo (abbiamo deciso di ridare ad ogni ministero il suo vero nome!). Ciascuno sta crescendo nella dipendenza da Dio, nell’umiltà, nell’ascolto del Signore; stiamo acquistando più maturità, stabilità, sicurezza, equilibrio, saggezza, riposo interiore e conoscenza. II nostro carattere e l’autocontrollo diventano sempre più forti, grazie al Signore e ai nostri rapporti.
Può forse interessare sapere come ci siamo organizzati. Quando sono venuto a Caserta, mi sono disposto a servire ovunque mi fosse stato chiesto. Giovanni, insieme alla sua crescente funzione apostolica a livello nazionale, portava anche la responsabilità pastorale della comunità di Caserta. Emilio dava un contributo pastorale alla comunità stessa, occupandosi in maniera particolare di un gruppo a 30 Km da Caserta, ma manifestava anche una crescente sensibilità profetica. Geoffrey svolgeva già la funzione di “dottore” tenendo corsi biblici, insegnamenti, la redazione di Tempi di Restaurazione e delle pubblicazioni, e di lì a poco ha intrapreso anche la responsabilità di una scuola biblica part-time.
Io invece iniziai a stimolare l’evangelizzazione con campagne sotto la tenda e riunioni in piazza e per le strade e promuovendo la testimonianza individuale dei credenti; presi in mano anche una parte dell’organizzazione delle attività comunitarie, oltre a stimolare i compagni d’opera e tutti i credenti con l’amore, il sostegno e la disponibilità.
La chiesa è cresciuta in consacrazione e in numero; è migliorata l’adorazione, la musica, la testimonianza. Imparando a conoscere i credenti, ho iniziato poi a sollevare Giovanni da certe incombenze pastorali, in attesa del giorno in cui egli potrà essere interamente liberato dalla cura ordinaria della comunità per consacrarsi maggiormente al ministero apostolico. Oggi puntiamo a che la sua vita sia presa sempre più dalla cura nostra e da quella di chiese e di ministri, dalla formazione dei futuri servi di Dio e dai rapporti con altre realtà.
Emilio ed io ci occupiamo della cura, della guida e della crescita della chiesa locale e sovrintendiamo le sue attività, aiutati in questo dagli altri anziani e da alcuni fratelli emergenti. Oggi abbiamo la gioia di essere un corpo di servitori che amano la chiesa e che per lei hanno saputo deporre ogni individualismo, ambizione personale, spirito di parte e di competizione, per servire, servire ovunque, sempre e in qualsiasi condizione, in maniera fedele e leale.
Sappiamo di avere ancora molto da imparare, ma di una cosa siamo certi: la “poltrona”, il nome, la denominazione, il successo personale, eccetera, non c’interessano. Essere uno, essere insieme e rimanere insieme con il Signore Gesù per amare, servire ed edificare la Sua chiesa è cosa ben più bella e gratificante. E sopratutto la sicurezza che deriva dall’evidenza del nostro amore reciproco, dalla nostra lealtà e fedeltà è quanto di più bello un uomo impegnato nel ministero possa sperimentare. Ho oggi un profondo debito di gratitudine verso il Signore e verso i Suoi strumenti: Chris che seppe amarmi con tutti i miei limiti, e Giovanni, Geoffrey, Emilio e gli altri fratelli che mi hanno dato il privilegio e l’onore di lavorare al loro fianco. Questi tre anni sono stati certamente i più intensi della mia vita, ma anche quelli in cui ho vissuto le più grandi soddisfazioni e gioie. Benedico il Signore per la mia scelta.
E la comunità di Salerno? Anche se in modo graduale, sicuramente sta andando avanti. Dio ha certamente un futuro per quella chiesa.
Infine, ringrazio Dio perché sono finite le mie emicranie! Pur avendo ora una vita estremamente piena e attiva,, credo di poter dire di essere entrato nel “riposo”, grazie al ministero di squadra. Guardo ora al futuro con grandi aspettative, e prego che tutti i ministri che svolgono il loro servizio in maniera solitaria, indipendente e autonoma possano entrare nelle benedizioni di questo tipo di rapporto. Forse bisognerà cambiare tutto il nostro modo di concepire il ministero; ma credo che ne varrà la pena. Chi potrà, beneficiarne non sono solo i ministri, ma tutto il corpo di Cristo che potrà esserne edificato insieme, entrando così nel riposo e nella forza.