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di Giovanni Traettino
La vita è comunicazione, perché la vita è relazione. È questo il modo in cui Dio ci ha costruiti.
Dio stesso, nella Sua natura, è il grande Comunicatore: Egli ha bisogno di comunicare, di esprimersi, di tirare fuori quello che ha dentro. È interessante come l’apostolo Giovanni, dovendo trovare una definizione per Gesù che si incarna, dice: “In principio era la Parola”: infatti la parola è la forma più evidente di comunicazione.
E anche l’uomo è un “progetto di comunicazione”. Quando Dio volle coronare la creazione, creò un essere che aveva bisogno di comunicazione e di rapporti. Ogni uomo porta dentro di sé questo bisogno di relazione e di comunione. Anche il monaco che si isola lo fa per amore folle di un certo tipo di relazione, quella con Dio: rinuncia ad altre relazioni essenziali per amore di una comunione più intima e profonda con Dio e con se stesso.
Questa ricerca di relazione è una continua sfida alla solitudine e all’isolamento in cui ci ha precipitati la rottura della comunicazione con Dio. Quando Adamo ed Eva commisero il peccato originale, ciò produsse in noi l’alienazione: fu adombrata e interrotta la capacità naturale di aprirsi e di donarsi gioiosamente all’altro.
C’è una bella commedia di Eduardo De Filippo, Le voci di dentro, in cui un vecchio zio si è rifugiato su un soppalco in casa e col passare degli anni ha ridotto sempre di più i suoi contatti con gli altri. Non parla più col prossimo, neanche con la sua stessa famiglia; l’unico modo in cui comunica è attraverso i fuochi d’artificio. Questa è un’immagine di disperazione e di angoscia che però non si scosta molto dalla condizione in cui molta gente si ritrova. Come ha detto lo scrittore francese Sartre, è come se si alzasse un muro tra noi e gli altri – perfino tra noi e noi stessi – precipitandoci in una condizione dalla quale non riusciamo ad uscire.
L’uomo si sposa essenzialmente per soddisfare questo bisogno di intimità, di comunicazione, di comunione e di integrazione con un altro essere umano. Però molto spesso la storia del matrimonio è quella di un dialogo che diventa sempre più silenzioso, di una comunicazione che diventa un muro: un’esperienza di fallimento dal punto di vista dell’apertura dei rapporti e della comunicazione. Quindi è importante per noi, sapendo qual è il progetto di Dio, comprendere in che modo possiamo superare il destino che abbiamo ereditato dalla caduta di Adamo e vincere la tendenza naturale che ci spinge a chiuderci, ad isolarci e ad interrompere il dialogo con gli altri, col nostro coniuge e perfino con noi stessi.
L’idolatria del corpo
Dio ci ha costruiti in un certo modo: siamo fatti di spirito, anima e corpo. Egli ha pensato tutte e tre queste dimensioni come strumenti di comunicazione, e tutte e tre devono trovare modi di esprimersi.
È evidente però che il corpo è la parte più visibile e tangibile di noi, e la nostra tentazione è di pensare che sia anche la più importante, che comunicare fisicamente sia la cosa principale. Come ha detto uno scrittore italiano, la crisi della parola e dello spirito ha portato all’esaltazione del corpo e l’uomo moderno cerca di comunicare essenzialmente attraverso di esso. Il mondo in cui viviamo ci dice con insistenza che ciò che più conta è comunicare fisicamente. C’è l’esplosione, l’esaltazione e l’idolatria del sesso. La “civiltà dell’immagine” non è altro che questa espressione: corpo, corpo e corpo. Del resto, nel corso della storia, tutte le società in crisi hanno finito col rifugiarsi nella carnalità e nella sessualità come ultima possibilità di comunicazione.
Chiaramente, questo ci avvicina a livelli elementari di comunicazione che sono poco soddisfacenti: se questo dovesse essere l’unico livello di relazione, saremmo proprio a un livello animalesco. Dio invece ci ha costruiti anche con un’anima e uno spirito; l’essenza del nostro essere è proprio lo spirito. Leggiamo in Genesi come Dio prese un pezzo di terra e vi soffiò dentro: siamo dunque un pezzo di terra che riceve la sua identità dalla presenza dello spirito. È questo che rende l’uomo diverso da ogni altra creatura. Abbiamo bisogno di comunicare sia con lo spirito, sia con la nostra anima (l’intelligenza e le emozioni), non solo fisicamente.
Ora, il matrimonio è il contesto maggiore in cui siamo chiamati a sviluppare questa comunicazione: in nessun altro spazio come in esso queste tre dimensioni possono essere sviluppate. Però, allo stesso tempo, queste possibilità di comunicazione sono causa di conflitti e ci fanno entrare in crisi spirituale, intellettuale e fisica, proprio perché la comunicazione stenta a decollare. Queste sono anche le aree fondamentali di crisi nel matrimonio, per cui se impariamo ad affrontare questa problematica in modo adeguato, possiamo costruire l’unione in modo più solido.
Fragilità
La nostra condizione esistenziale di fragilità e di organica debolezza è scritta nelle nostre ossa, nella nostra anima e nel nostro spirito. È una condizione dalla quale non usciremo in modo definitivo e permanente se non nella vita futura, quando saremo perfettamente uniti a Dio. Ai fini della nostra riflessione, Romani 3:23: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, può essere letto in un modo leggermente diverso dal solito. Ve lo adatto in questo modo: “Tutti sono nevrotici e sono privi del carattere di Dio”. Ma poi il testo continua letteralmente: “… ma sono stati sanati gratuitamente dal suo amore incondizionato”. La risposta alla perdita della capacità di comunicazione è la decisione gratuita di Dio di comunicarsi liberamente a noi e di amarci in modo incondizionato.
Quindi, nel discorso che facciamo intorno al matrimonio, dobbiamo tener presente costantemente questa considerazione: mia moglie o mio marito ha delle nevrosi e delle debolezze che devo accettare come un dato esistenziale. Dobbiamo riceverci così come siamo in conseguenza del peccato, perché Dio ci accetta in questo modo. Questo è importante per entrambi i coniugi e anche nei riguardi di noi stessi. Chi di noi non conosce la disperazione con se stesso, quando ci sentiamo profondamente delusi e falliti perché non riusciamo a fare, ad essere, ad esprimere ciò che vorremmo!
Accettare la nostra condizione di debolezza è già un principio di guarigione. Se invece siamo deformati da un atteggiamento in cui riteniamo che essere santi voglia dire essere perfetti e infallibili, diventiamo facile preda di scoraggiamento e depressione, grandi nemici della nostra salute spirituale, mentale e fisica, e anche del nostro matrimonio.
La grazia è vitale perché il vuoto che abbiamo in noi è vitale e può essere riempito solo dall’amore e dalla grazia di Dio, prima, e poi dal nostro prossimo. È la grazia, l’amore incondizionato che ci introduce alla pace del cuore, che ce la conserva insegnandoci ad accettare le nostre debolezze e ad aprirci all’amore di Dio. Ed è anche questa accettazione delle nostre debolezze e fragilità che ci consente di aprirci all’amore del nostro coniuge, mettendoci nella condizione di riceverlo. Senza questo, siamo destinati a scontrarci con la realtà del nostro carattere e dei limiti caratteriali di chi ci sta vicino.
In 2° Corinzi 12:9, Dio dice a Paolo: “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza. Perciò – conclude l’apostolo – molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me”. Noi leggiamo queste cose, di solito, solo in rapporto a Cristo e alle cose “spirituali”, ma è una realtà che fa parte della vita di ogni giorno, delle nostre relazioni con noi stessi e col nostro prossimo. E il nostro prossimo più vicino è nostro marito o nostra moglie. Quando dunque accettiamo questa condizione di debolezza, diamo spazio all’amore di Cristo, il solo amore incondizionato che possa farci uscire dall’impotenza di comunicare e di esprimerci.
Vittorie e sconfitte
Perché tutta questa premessa? Perché io so come vanno i vostri matrimoni e la vostra vita: vanno come la mia! So che avete problemi e conflitti, che ci sono giornate in cui vorreste sprofondare, fuggire lontano da vostro marito o da vostra moglie; giorni in cui siete disperati perché non riuscite a comunicare quello che avete dentro; giornate in cui, per quanto diciate o facciate, non è possibile arrivare da nessuna parte. Ma io vi dico che questa è la nostra condizione, la nostra natura. È bene che ce ne rendiamo conto, che decidiamo di accettare questa realtà.
Dice Lutero che il lavoro dello Spirito Santo nella nostra vita si vede quando cominciamo ad accusare noi stessi, a dire: “È vero, questo non funziona in me, e neanche quest’altro!” Ma poi, facciamo spazio all’amore gratuito di Dio per essere giustificati per grazia mediante la fede. Non cerchiamo di salvare il nostro matrimonio con le nostre forze, ma riconosciamo chi siamo e facciamo spazio a Dio. Questo dà un profilo più naturale e più umano alla nostra condizione di disperazione, fragilità e impotenza. Non dobbiamo nasconderci o far finta di essere “super” quando non lo siamo.
Il Signore sa questo perfettamente, e anche noi dobbiamo riconoscerlo nell’avviarci ad edificare il nostro meraviglioso progetto di matrimonio. Siamo nel campo del perfettibile, del possibile, del tentativo di ricerca. Quanto prima cadono le illusioni infantili e adolescenziali, e l’amore del teenager fa posto a quello dell’uomo e della donna maturi che hanno imparato a capire un po’ di se stessi e della vita, tanto prima il matrimonio potrà cominciare ad essere costruito solidamente. Vi ho delusi, fratelli? Spero di no; spero che conosciamo noi stessi abbastanza da fare spazio a Dio e alla Sua grazia nella nostra vita.
Bisogni fondamentali
L’orizzonte nel quale viviamo, pensiamo, soffriamo e ci disperiamo è quello relazionale, un universo nel quale il bisogno fondamentale è quello di relazione. Perché? Perché Dio ha messo dentro di noi dei bisogni basilari e strutturali, che fanno parte di noi e quindi sono ineliminabili, per cui tutta la nostra vita è una continua ricerca del loro soddisfacimento.
Quali sono questi bisogni?
Il primo è quello di identità e di significato: di sapere chi sono e se la mia vita ha un valore. L’uomo corre alla disperata ricerca di questo: quando lavora, quando si innamora, quando si sposa e in tutti i momenti della sua vita, cerca di definirne il valore per se stesso e per gli altri.
Il secondo bisogno è quello di sicurezza – di sentirsi sicuri in se stessi e in mezzo agli altri – e di accettazione, di amore incondizionato. Il mio più profondo bisogno non è di essere ammonito, ripreso e disciplinato, ma di essere accettato e approvato. Quante volte ci guardiamo intorno con lo sguardo indagatore, dopo avere fatto o detto qualcosa, per vedere se siamo approvati? E abbiamo bisogno di affetto, l’esigenza che l’approvazione sia esternata con abbracci, di sentirsi toccati e guardati con affetto. La comunicazione non è solo parola, ma anche gesti.
In ultimo, abbiamo bisogno di realizzarci, di esprimerci concretamente attraverso il lavoro o le altre attività della nostra vita.
Ognuno di noi riceve questo pacchetto di bisogni fin dal concepimento: sono parte della nostra eredità in Adamo. Ora, la conseguenza di una insufficiente soddisfazione di questi bisogni di base è l’immaturità emotiva. L’immaturo è uno che rifiuta di crescere per lasciare indietro le cose dell’infanzia che in qualche modo gli sono mancate. Ora, in 1° Corinzi 13:11 leggiamo: “Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino”. Anche Giovanni Pascoli sostiene che in ciascuno di noi, tolte le forme dell’età adulta, c’è un bambino la cui percezione è impedita dalle sembianze adulte. Il bambino attribuisce agli altri la responsabilità della propria vita e delle proprie colpe; vive dipendente dalle emozioni degli altri, dalle loro scelte, dal loro aiuto. L’adulto invece si assume la responsabilità delle proprie scelte e della propria vita.
Quindi si può parlare, sentire e ragionare come bambini, anzi, tutti noi lo facciamo quanto meno in alcune aree della nostra vita. Poiché abbiamo paura di essere rigettati o disapprovati, poiché abbiamo paure, ferite e insicurezze, manteniamo i rapporti con il nostro prossimo a un livello superficiale: parliamo e comunichiamo in modo parziale, limitato, disorientato e disordinato. E spesso la nostra è una storia di tentativi, di lotte e battaglie per passare da questi livelli superficiali a quelli più profondi e immediati.
Ma quando viene lo Spirito Santo, la prima cosa che fa è di darci franchezza e libertà di comunicazione, facendo cadere le barriere emotive e psicologiche, aiutandoci a superare il bambino che c’è in noi. L’apostolo Paolo dice, appunto: “Ho smesso di essere bambino”.
Sanare le radici
Ora, nel cammino che facciamo per guarire la nostra capacità di comunicazione, la prima area da guarire è quella dello spirito, cioè sanare le nostre radici. Nessuno pensi che sia un discorso fatto sulle nuvole parlare dello spirito nel contesto del matrimonio. Alcuni vedono le cose materiali, il corpo, altri magari i ragionamenti, le discussioni e i sentimenti, senza vedere lo spirito. Io invece sono profondamente convinto che un matrimonio riceve forza e guarigione dalla vita dello spirito. Come controprova, basterebbe fare la statistica dei matrimoni in questo mondo e vedere come vanno quando sono affidati esclusivamente alla comunicazione psicologica e fisica, in tanti casi addirittura solo a quella fisica …
In 1° Corinzi 2:10-11 sta scritto: “Chi, tra gli uomini, conosce le cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così nessuno conosce le cose di Dio se non lo Spirito di Dio”. Se questo è vero, cioè che la vera conoscenza è una funzione dello spirito, allora lo spirito è fondamentale per la comunicazione e quindi per il matrimonio. Se hai problemi nel matrimonio, torna a dare allo spirito il primato nella tua vita personale!
Ora, Dio può realizzare i suoi obiettivi nel matrimonio solo quando sia il marito che la moglie hanno deciso di “smettere di essere bambini” per diventare tutto ciò che Egli vuole che siano – cioè adulti, maturi e spirituali – mettendo in primo piano il loro cammino con Lui. Abbiamo bisogno di una relazione profonda e personale con Dio. La tendenza naturale del bambino che è in noi è invece di mettere se stesso al centro e far gravitare intorno a sé tutti gli interessi emotivi, materiali e di ogni altra natura.
Quando invece ciascuno dei coniugi decide di avere una relazione personale con Dio, il centro si sposta dall’io a Dio perché ognuno dei due ha l’obiettivo di uniformarsi all’immagine di Gesù Cristo. Egli diventa il punto di riferimento; con Lui si misurano le azioni e le reazioni, gli umori e gli stati d’animo, i ragionamenti e i comportamenti. Perché se dobbiamo affermare le nostre ragioni con i mezzi naturali su un terreno naturale, è una lotta senza quartiere in cui chi è più bravo la spunta. Quando invece entriamo in un rapporto con Dio prevalgono i Suoi diritti, non i nostri; ci sottomettiamo a Lui perché possa operare liberamente nella nostra vita.
Il rapporto personale con Dio è dunque fondamentale, anche da un punto di vista psicologico perché in esso i nostri bisogni di base vengono soddisfatti. Quanto più è intima questa relazione, tanto più ci soddisfa e ci realizza. Se la nostra relazione con Dio non ci soddisfa e non ci realizza, vuol dire che non abbiamo con Lui un livello di relazione sufficiente. Siamo stati fatti per Dio e il vuoto che è dentro di noi è fatto a forma di Dio: solo Lui può riempirlo. Non chiediamo al nostro coniuge ciò che solo Dio può dare! Alcuni matrimoni vanno in crisi per le aspettative alte, talvolta impossibili, di un coniuge nei confronti dell’altro: pensano di avere sposato un dio o un semidio, e invece non è così. Siamo tutti in qualche modo malati e fragili dentro.
Questo è ciò che dà vita, che alimenta le radici. “Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto”, dice Gesù. Quando siamo in comunione con Dio, è la vita dello Spirito che ci viene comunicata. “Chi si unisce al Signore è uno stesso spirito con lui” (1° Corinzi 6:17).
Un esempio biblico
C’è nei Vangeli un bell’esempio di coppia in cui la comunicazione funzionava molto bene, per cui, di fronte a situazioni con un potenziale di crisi enorme, hanno saputo gestire la cosa in maniera straordinaria. Parlo di Giuseppe e Maria in Matteo 1:18-25: “La nascita di Gesù avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo marito, che era uomo giusto e non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente. Ma mentre aveva queste cose nell’animo, un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua moglie; perché ciò che in lei è generato viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati» … Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva comandato, e prese con sé sua moglie; e non ebbe con lei rapporti matrimoniale finché ella non ebbe partorito un figlio; e gli pose nome Gesù”.
Questa è la storia di una famiglia ordinaria sorpresa da eventi straordinari. Ma non so se una famiglia “normale” avrebbe retto a questo tipo di pressione. Se Giuseppe e Maria avessero affidato la comunicazione solo all’intelligenza e alle emozioni, la loro famiglia sarebbe saltata appena Giuseppe ebbe quella notizia sconvolgente. C’era qualche altra cosa che li teneva insieme e che dava a Giuseppe e Maria la loro identità: una forza che andava al di là del loro rapporto e del loro amore naturale.
Queste due persone avevano radici molto profonde in Dio, una relazione con Lui incredibile da un punto di vista umano. Io mi immagino in una situazione del genere e mi chiedo quali sarebbero state le mie reazioni, i miei stati d’animo e le mie emozioni? Certamente non avrei fatto i ragionamenti di Giuseppe e non so nemmeno se un sogno sarebbe stato sufficiente a farmi cambiare idea! La comunicazione tra quei coniugi fu fondata ed “affidata” innanzitutto alla loro relazione personale con Dio, che precede quella tra le persone e ne diventa la base.
Una comunicazione fatta di atteggiamenti
E questa comunione è talmente intensa che va oltre il livello delle parole e determina gli atteggiamenti di quelle persone, prima ancora che comunichino a parole. Mi colpisce molto il versetto 19: “Giuseppe, che era uomo giusto e non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente”. Qui leggo in trasparenza tutto il timore di Dio che c’è in quest’uomo, la sua preoccupazione di non fare cose che potessero ferire o esporre un altro essere umano, anche se, per quanto lui ne sapesse, poteva avere sbagliato.
Un buon atteggiamento dà spazio all’intervento di Dio. L’atteggiamento di Giuseppe dà spazio all’intervento di Dio nella comunicazione: se non ci fosse stato questo atteggiamento, probabilmente Giuseppe non avrebbe mai fatto l’esperienza successiva, quando Dio gli manda un angelo a parlargli in sogno (v.20). Ma quell’esperienza diventa rilevante per Giuseppe perché la riceve sul terreno della disponibilità, dell’apertura e della comunione con Dio.
Egli non ha il suo centro d’interesse in se stesso, ma in Dio: ciò che conta per lui è fare la Sua volontà, e ciò crea le condizioni per l’intervento di Dio. Questo è molto importante all’interno del matrimonio: avere l’atteggiamento giusto, essere uomini e donne spirituali anche quando l’altro sbaglia. Se aspettiamo l’intervento di Dio, Egli è in grado di intervenire là dove siamo impotenti perché il nostro atteggiamento glielo consente.
Per quanto riguarda Maria, leggete in questo brano una sua qualsiasi difesa? Qualche spiegazione? Qualche reazione aggressiva? Vedete invece qual è il suo atteggiamento silenzioso e mansueto: come un agnello, sta lì come vittima sacrificale per ospitare Dio, esponendosi ai fraintendimenti del marito e alle malignità della gente, serena e in pace.
Il dato fondamentale che io vedo è questo: Giuseppe risponde a Dio delle sue decisioni nei riguardi di Maria, e questa risponde a Dio per la sua vita e le sue scelte prima ancora che al coniuge. Anche dopo la comparsa dell’angelo, Giuseppe assume le sue responsabilità davanti a Dio: “… prese con sé sua moglie; e non ebbe con lei rapporti matrimoniale finché ella non ebbe partorito un figlio”, rinunciando così anche ai suoi diritti di marito.
Tutto questo perché? Perché era aperta la loro comunicazione con il Signore!