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di Geoffrey Allen
Quando ero ragazzo, il Natale era una grande festa nella mia famiglia.
I preparativi iniziavano già con un mese di anticipo, con la preparazione dei tradizionali dolci (che dovevano essere “stagionati” per tutto il mese di dicembre). La vigilia di Natale, poi, si addobbava tutta la casa con striscioni di carta colorata e con rami di agrifoglio e di altri sempreverdi dal giardino.
Un anno, mi è venuta la bell’idea di tagliare dei tralci di edera dalla pianta che cresceva accanto alla porta di casa e di intrecciarli nella ringhiera della scala interna. Sembrava di trovarsi in una giungla!
L’anno successivo, mentre si facevano i soliti preparativi, qualcuno chiese: “E l’edera? Non la metti come l’anno scorso?” Da allora in poi, finché stavo in casa dei miei genitori, tutti gli anni dovevo fare allo stesso modo. Era diventata subito una tradizione!
La forza della tradizione
In un altro articolo di questo numero, Juan Carlos Ortiz descrive la forza delle tradizioni e come esse possono costituire un ostacolo al cambiamento e – come ci avverte Gesù – addirittura vanificare la Parola di Dio.
Ma la tradizione non è di per sé né buona né cattiva. Infatti, tutti noi abbiamo le nostre tradizioni: tradizioni di famiglia, tradizioni sociali, tradizioni di chiesa …Anzi, sono convinto che l’uomo ha proprio bisogno di tali tradizioni, che servono per dare alla vita una certa regolarità e dei punti di riferimento. Ci dànno la sicurezza di sapere che cosa ci aspetta, così che possiamo rilassarci.
Tutti noi, infatti, abbiamo fatto esperienza di quanto sia stressante trovarsi in un ambiente sconosciuto, dove non sappiamo cosa accadrà né cosa ci si aspetti da noi. Se non altro, molti di noi abbiamo vissuto questo “stress” di sentirci completamente spaesati al nostro primo ingresso nella “sottocultura” di una chiesa evangelica, dove tutto all’inizio ci sembrava così strano e diverso! La gente parlava una lingua diversa, non sapevamo più come comportarci …
Bibbia e tradizione
È difficile per noi evangelici, che ci vantiamo di fondare la nostra fede sulla “sola scriptura” (cioè sulla Bibbia soltanto), renderci conto di quanto dobbiamo alla tradizione cristiana.
Certamente è giusto – ed io sono il primo a sostenerlo – non insegnare come vincolante in materia di dottrina o di pratica nulla che non sia fondato sulla Parola di Dio. Ma … quante cose ci sono in cui la Scrittura non ci dà una guida chiara! E quante altre in cui abbiamo solo qualche accenno o qualche esempio della prassi della Chiesa primitiva, senza che questa ci sia indicata come norma obbligatoria!
Per esempio, non c’è nulla nella Bibbia per dire che dobbiamo avere un culto domenicale (e neanche – a scanso d’equivoci per i nostri fratelli avventisti del settimo giorno – sabaticale!) Abbiamo appena un esempio di una chiesa cristiana che si riunisce nel giorno di domenica, quella di Troas (Atti 20:7), senza però che sia detto che questo fosse la norma in quella chiesa, tanto meno nelle altre. D’altronde la domenica, in una società pagana, era una giornata lavorativa (e molti credenti erano schiavi che non potevano certo prendersi un giorni di ferie!), per cui obbligatoriamente la riunione della chiesa ebbe luogo la sera tardi; e se, come è probabile, i cristiani seguivano il modo di calcolare ebraico, secondo il quale il giorno iniziava al tramonto, quel “culto” ebbe luogo in realtà il sabato sera!
Lo stesso brano è anche l’unica indicazione che abbiamo sulla frequenza con cui si celebrava la cena del Signore. Gesù infatti si è limitato a dire: “Fate questo in memoria di me” (Luca 22:19), senza dire quando farlo; e così le diverse chiese evangeliche hanno sviluppato diverse tradizioni in merito. Luterani, Fratelli ed Apostolici lo fanno tutte le domeniche, mentre i presbiteriani e riformati, i metodisti e la maggior parte dei pentecostali solo raramente (di solito dalle due alle quattro volte l’anno).
La mia opinione è che la prima di queste posizioni sembra avere più giustificazione biblica (almeno se riteniamo che la riunione della chiesa di Troas rappresenti la sua pratica abituale, e non un’occasione speciale in vista della visita apostolica!), e certamente è attestata abbastanza presto nei documenti extra-biblici come prassi della chiesa primitiva. Ma …non bisogna dimenticare che in Atti 2:46 leggiamo che “ogni giorno … rompevano il pane nelle case …”!
Non solo, ma la Bibbia indica chiaramente che la “cena del Signore” (a proposito, anche il termine “Santa Cena” deriva dalla … tradizione!) non consisteva nella distribuzione di un pezzetto di pane e un sorso di vino, ma era una vera e propria … cena! Infatti il brano di Atti cap. 2 appena citato prosegue subito: “ … e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore …”. Anche al cap. 20, Luca racconta che Paolo “spezzò il pane e prese cibo”; mentre in 1° Corinzi 11 (il brano che … “per tradizione” viene letto quasi tutte le volte che si celebra la “Santa Cena”), l’apostolo Paolo si lamenta che “quello che fate, non è mangiare la cena del Signore; poiché, al pasto comune, ciascuno prende prima la propria cena; e mentre uno ha fame, l’altro è ubriaco” (vv.20-21). Chiaramente si tratta di un vero e proprio pasto (ciò che oggi noi chiameremmo una “agape”).
Inni ed edifici
Ancora, non troviamo nessun appoggio specifico nelle Scritture per la pratica di cantare inni nel culto della chiesa. Tutti quei (pochi) brani del Nuovo Testamento che accennano al canto dei credenti suggeriscono un contesto di adorazione privata (Efesini 5:19, Colossesi 3:16, 1° Corinzi 14:15, Giacomo 5:13). Certo, si parla dei canti degli angeli e dei redenti in cielo (e ciò è sicuramente un modello per l’adorazione della chiesa); ed esistono buoni motivi per credere che anche il culto della tenda di Davide nell’Antico Testamento, con i suoi salmi, con l’orchestra, con le danze, le grida di gioia, i battiti di mani, eccetera, non è reso obsoleto dal Nuovo Patto. Resta il fatto che, se volessimo dimostrare dal Nuovo Testamento che bisogna cantare in chiesa, sarebbe un’impresa estremamente ardua!
Eppure tutti noi sappiamo come gli inni della chiesa – vecchi o nuovi che siano, con la musica solenne dei secoli passati o con i ritmi più vivaci della produzione moderna – ci edificano, fanno da veicolo per la nostra lode e adorazione e ci insegnano anche tante verità bibliche. (Qualcuno ha espresso l’opinione che la maggior parte dei credenti impara più teologia dagli inni che non da tutte le predicazioni!). Nessuna chiesa protestante si sognerebbe di abolire la sua innologia. Ma almeno, rendiamoci conto che si tratta di …una buona, sana, antica tradizione della chiesa!
Anche il fatto di avere degli edifici particolari riservati al culto non ha alcun fondamento nelle Scritture. Eppure è così radicato nella nostra mentalità che spesso ci riferiamo ai nostri locali come “chiese” (e addirittura come “comunità”!). Recentemente ci è capitato che un signore proveniente da un paese a tradizione protestante, marito di una credente, alla proposta di fare nel nostro culto la “presentazione” del loro bambino (a proposito, anche questo rito è un’altra tradizione priva di basi bibliche …) obiettava dicendo che voleva che si facesse in una “vera chiesa”! Voleva dire, immagino, un edificio con i banchi fissi, i vetri colorati e il campanile sopra!
La chiesa primitiva, per diversi secoli, si riuniva nelle case private o, nei tempi di persecuzione, nei boschi e nei cimiteri (detti “catacombe”); esattamente come fa oggi la fiorente chiesa perseguitata in Cina. In tal modo conservava, forse meglio di noi, la consapevolezza che la chiesa è fatta di gente, di “pietre viventi”, come dice l’apostolo Pietro (1° Pietro 2:5).
Ora, ancora una volta, non sto dicendo che sia sbagliata avere dei locali di culto là dove ciò è possibile (anche se facciamo bene a valutare accuratamente se il denaro speso per essi sia investito nel modo più fruttuoso per promuovere il regno di Dio). Voglio solo far capire fino a che punto tutto noi siamo il prodotto della storia della chiesa e, all’interno di essa, di una particolare tradizione cristiana.
Figli della storia
Qualcuno ha osservato che troppi evangelici parlano come se la chiesa fosse nata solo con il loro particolare movimento. Molti protestanti, per esempio, parlano come se la chiesa fosse nata con la Riforma di Martin Lutero nel 1517 (i Valdesi, invece, la fanno risalire a Pietro Valdo …!). Ci sono poi dei Fratelli che farebbero quasi credere che la storia del cristianesimo “vero” iniziasse con Mæller e Darby intorno al 1830. E molti pentecostali parlano come se la chiesa fosse iniziata solo nel 1900, ignorando il fatto che lo stesso movimento pentecostale non è nato in un vuoto storico, ma (come insegna l’istruttivo articolo del prof. Vinson Synan in questo numero) ha ereditato gran parte delle sue caratteristiche, impostazioni e dottrine da altri movimenti di risveglio fioriti durante i due secoli precedenti.
Il fatto è che anche la Riforma non era un tentativo di rifondare la Chiesa, bensì – come dice la parola stessa – di riformarla, senza dunque negare i quindici secoli di storia che la precedevano. Lutero voleva “demolire” solo ciò che considerava costruito “abusivamente”, ripulendo e ripristinando invece tutto il resto. Anzi, dal punto di vista di molti osservatori evangelici moderni (compreso il sottoscritto), il suo progetto sarebbe dovuto essere molto più drastico di quanto non lo fosse …
Nessuna chiesa, nessun movimento nella storia del cristianesimo nasce in un “vuoto storico”. Piuttosto, ciascuno nasce inevitabilmente come “protesta” e “reazione” a quello che già esiste e vi costruisce sopra; comprende in sé elementi di novità (o meglio – se va cioè in direzione di un’autentica “riforma” e non di un’ulteriore “deviazione” – di ritorno ad aspetti dell’originale modello biblico), abbinati ad altri che sono accolti più o meno acriticamente da quelli che sono i suoi “genitori”, cioè dall’ambiente in cui nasce. È così che anche i vari movimenti carismatici oggi in vista conservano molte caratteristiche dell’ambiente di origine, protestante, evangelico o cattolico che sia.
Le lezioni del passato
L’Antico Testamento – la maggior parte del quale è fatta di narrativa storica – ha molte lezioni da insegnarci, tanto esempi da imitare quanto da evitare. “Queste cose avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi” (1° Corinzi 10:11). Quanti personaggi biblici hanno delle lezioni da insegnarci! Basta pensare ad Abramo, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Caleb, Eli, Saul, Davide, Salomone, Nehemia … Non solo, ma anche il popolo d’Israele nel suo insieme ha tanto da insegnarci sulla fragilità e inaffidabilità della natura umana e, viceversa, sulla straordinaria pazienza e fedeltà di Dio.
A maggior ragione, però, la storia del cristianesimo serve per la nostra istruzione! Se la storia di Israele – un popolo naturale che viveva in una terra materiale sotto un patto di legge – ha tanto da insegnarci, quanto più il nostro popolo, l’Israele spirituale, vissuto per venti secoli sotto lo stesso patto come noi! Se i personaggi dell’Antico Testamento hanno tante lezioni per noi, quante più devono averne i personaggi vissuti sotto il Nuovo! La biografia cristiana (o “vite dei santi”, come dicono i cattolici) deve avere un posto di rilievo tra le nostre letture.
Con una piccola riserva, però: la Bibbia racconta con grande onestà – “per la nostra istruzione” – difetti, peccati e fallimenti di tutti i personaggi della storia sacra (non ce n’è uno perfetto … all’infuori di Gesù!), mentre purtroppo è noto come i biografi dei “santi” hanno presto preso la pessima abitudine di eliminare i difetti e di magnificare le virtù dei loro soggetti; tanto che il termine “agiografia” (biografia di un santo) è giunto a significare “esaltazione lusinghiera e falsificata di un personaggio”. E i cattolici non hanno il monopolio di questo difetto!
Però, là dove riusciamo a trovarne un racconto serio ed equilibrato, i personaggi della storia hanno tanto da insegnarci. E qui, tutta la Chiesa fa parte del nostro patrimonio. Non solo gli eroi della fede protestanti – Lutero, Zinzendorf, Wesley, Jonathan Edwards, William Carey, Hudson Taylor, C.T. Studd e decine di altri – sono fra i nostri “padri” “i quali per fede conquistarono regni, praticarono la giustizia, ottennero l’adempimento di promesse …” (Ebrei 11:33). Ma anche i “padri” e i martiri della chiesa primitiva quali Policarpo, Giustino, Tertulliano, e grandi figure storiche quali Agostino, Colomba, Francesco d’Assisi, Bernardo da Chiaravalle, Tommaso da Kempen, il curato d’Ars …
Non voglio dire, certo, che tutto ciò che hanno fatto tali personaggi sia da imitare. Essi, come noi, sono stati figli del loro tempo e della chiesa in cui sono vissuti, e ne sono stati condizionati. Ma proprio per questo, ci aiutano ad avere un occhio più critico verso i nostri presupposti e tutte quelle cose che troppo facilmente diamo per scontate. Anzi, come nel caso dei personaggi biblici, a volte impariamo di più dai loro errori che non dai successi …
Nessuno di loro è stato perfetto, tutti hanno commesso errori e probabilmente tutti hanno anche insegnato cose sbagliate: come dice l’apostolo Giacomo, “manchiamo tutti in molte cose. Se uno non sbaglia nel parlare è un uomo perfetto …” (Giacomo 3:2). Ha osservato Watchman Nee che “la storia è piena di casi di santi consacrati che hanno diffuso delle eresie!” S. Francesco, per fare solo un esempio, ha avuto un concetto gravemente deviato e antibiblico della povertà, esaltata a valore assoluto, che ha anche contribuito alla sua morte prematura. Ma non per questo non fanno parte della Chiesa, né tanto meno possiamo permetterci di ignorarli.
I movimenti del passato
Ancora più che dai personaggi, possiamo imparare tantissimo dai movimenti della storia passata della Chiesa. Alla conferenza della Consultazione Carismatica Italiana a Frascati l’anno scorso, il prof. Vinson Synan – il cui articolo sulle radici del Pentecostalismo è riportato altrove in questo numero – ha portato una lezione affascinante su quanto hanno da insegnarci i movimenti carismatici del passato. “Perché – ha domandato – nessuno dei movimenti di risveglio carismatico, che a più riprese si sono succeduti lungo il corso della storia, ha avuto la diffusione e l’impatto del movimento pentecostale del secolo XX?”
Esaminandone tre – i Montanisti del II-III secolo, i seguaci di Edward Irving in Gran Bretagna nel secolo XIX, i Shakers americani dello stesso periodo – ha rilevato in ciascuno delle lacune che ne hanno determinato l’involuzione e l’insuccesso. Trascurando la natura normativa della Bibbia (Montanisti), lo scopo missionario per cui è data l’effusione dello Spirito (Shakers) o il fatto che il Vangelo viene accolto soprattutto dai poveri (Irvingiti), hanno fallito lo scopo per cui era stato loro concesso da Dio questo dono. Il movimento pentecostale moderno, invece – con tutti i difetti e le lacune che può avere – ha centrato questi tre punti cardinali ed ha avuto così un impatto mondiale. Ma – ha concluso il prof. Synan – se vuole continuare ad avere lo stesso successo anche nel futuro, esso deve imparare le lezioni della storia per non allontanarsi dai principi che ne hanno determinato il successo.
Il problema della chiesa è – come dice il titolo di un libro di qualche anno fa – “il problema dell’otre”. “Non si mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti gli otri scoppiano, il vino si spande e gli otri si perdono; ma si mette il vino nuovo in otri nuovi”, ha detto Gesù (Matteo 9:17). Dio continua a versare sulla terra il suo “vino nuovo”, suscitando nella Chiesa tanti movimenti di rinnovamento e di riforma. Ma … l’otre? È capace di contenere e di conservare questo “vino”, oppure questo finisce per “spandersi”, andando rapidamente perduto?
Il problema dell’otre è che … per quanto “nuovo”, col tempo diventa vecchio! La saggezza dell’apostolo – colui, cioè, che deve curare la costruzione dell’edificio di Dio che è la Chiesa (Efesini 2:20-22) – sta nel darle delle forme quanto più possibile “resistenti all’invecchiamento”, che resteranno cioè quanto più a lungo possibile flessibili, capaci di contenere il lavorìo e la fermentazione del “vino nuovo”, senza scoppiare.
La storia del cristianesimo ha tante lezioni da insegnarci sulle caratteristiche che fanno durare nel tempo o meno movimenti di risveglio e di rinnovamento. Essi mostrano infatti grandi differenze di durevolezza. Alcuni, come il Francescanesimo, hanno conservato freschezza e vigore per appena una generazione: già prima che morisse Francesco alla giovane età di 44 anni, e con suo grande rammarico, il suo movimento si era in gran parte istituzionalizzato. Perché? Credo in gran parte perché gli mancavano solide basi bibliche. Francesco stesso, un laico, conosceva poco della Bibbia all’infuori dei quattro Vangeli. I suoi convertiti e seguaci erano dotati di grande zelo, ma non hanno avuto il modo di “aggiungere alla fede … [e] alla virtù, la conoscenza” (2° Pietro 1:5).
I Valdesi, invece – sorti più o meno nello stesso periodo – avendo una forte enfasi sulla Bibbia, hanno conservato molto più a lungo la vitalità, anche se questa maggiore radicalità biblica è costata loro la scomunica e la persecuzione (fattori, questi, che tendono si per sé a purificare e quindi a conservare un movimento spirituale). Impariamo la lezione!
Uno dei movimenti che ha conservato più a lungo forza e vitalità è stato il Metodismo, insieme con i vari movimenti che ne sono derivati. Anzi, possiamo dire che – anche se oggi gran parte delle denominazioni metodiste nel mondo sono ormai spiritualmente moribonde – tutto il movimento evangelico moderno ne è figlio e erede.
Perché questa longevità spirituale? Perché Giovanni Wesley, oltre a predicare una conversione radicale dal peccato a Dio – dando così alla “casa” un buon fondamento – ha avuto anche la saggezza di costruirci sopra in maniera forte e nello stesso tempo flessibile. Ha curato l’insegnamento dei convertiti, con una serie di sermoni di base che non solo egli stesso ripeteva in tutte le località che visitava regolarmente, ma che ha anche impartito ai suoi discepoli ed eredi spirituali perché facessero altrettanto. Poi, ha dato grande attenzione alla cura e alla comunione. Ogni convertito veniva inserito in una “classe” – quella che oggi chiameremmo una “cellula” – di circa dodici persone, con un leader, in cui si studiava la Bibbia, si pregava, si condividevano problemi, c’era l’esortazione, la correzione e la riprensione reciproca. E poi, ha curato anche l’aspetto missionario del suo movimento, che per 150 anni ha conservato una grande spinta evangelistica sia in patria, sia all’estero. “L’otre” è rimasto per molto tempo “nuovo”, cioè flessibile e adatto a contenere il “vino nuovo” dello Spirito.
Impariamo dunque le lezioni della storia! Essa è stata scritta per nostra istruzione. Essendo “circondati da una così grande schiera di testimoni”, abbiamo oggi molte possibilità in più, rispetto ai credenti del primo secolo – che dovevano percorrere la strada da pionieri, senza una carta – di portare il nostro lavoro a buon fine, senza ripetere ancora gli stessi errori del passato.