SCARICA PDF di questo articolo
di Kefa Sempangi
L’era dei martiri non è per nulla finita con i tempi della chiesa primitiva. Al contrario, è stato calcolato che i martiri per Cristo del nostro secolo sono più numerosi di quelli di tutta la storia precedente del cristianesimo. Ancora oggi molti nostri fratelli sono chiamati a pagare il prezzo per seguire Cristo con il proprio sangue, e rispondono prontamente alla chiamata.
È nota, per esempio, la persecuzione in atto nei paesi arabi e in Cina, dove comunque viene riconfermato per l’ennesima volta il detto di Tertulliano: “Il sangue dei martiri è seme: più ci uccidete, più ci moltiplichiamo”. Meno noti, forse, i martiri del genocidio del 1994 in Ruanda, dove numerosi cristiani (anche Hutu) che si rifiutavano di partecipare ai massacri ma, anzi, proteggevano i loro fratelli Tutsi, rimasero brutalmente uccisi.
Questa testimonianza eccezionale, apparsa ormai diversi anni fa, continua a commuovere e a sfidare la nostra fede.
– N.d.R.
Dal 1972 al 1979, il governo di Idi Amin impose alla nazione centrafricana dell’Uganda un regno di terrore. Più di 300.000 persone furono massacrate, torturate, tagliate a pezzi, obbligate a mangiare la propria carne. Migliaia di altri si rifugiarono all’estero, portando con sé solo i vestiti che avevano addosso.
La Chiesa cristiana fu un bersaglio particolare delle violenze di Amin. Per accattivarsi il supporto delle nazioni arabe, egli sosteneva che la popolazione dell’Uganda fosse composta all’80 per cento di musulmani (mentre in realtà sono solo il 6 per cento), e promise di ripulire il paese della sua “piccola minoranza cristiana”. Migliaia delle sue vittime morirono martiri, e fra le molte storie vere degli orrori dell’Uganda emergono anche racconti di come il popolo di Dio, in mezzo a sofferenze atroci, è giunto a comprendere le profondità dell’amore di Dio. Una delle più straordinarie è la storia di Joseph Kiwanuka, qui raccontata dal suo pastore e intimo amico, Kefa Sempangi.
Negli ultimi tre mesi del 1972, mentre l’Occidente continuava a considerare le storie di genocidio in Uganda come esagerazioni gonfiate da profughi impauriti, Idi Amin e i suoi soldati uccidevano più di 90.000 ugandesi. Fra questi era il capo della magistratura del paese, arrestato nel proprio studio il 21 settembre di quell’anno. Sotto la minaccia delle armi fu trascinato nel carcere militare di Makindye, dove fu mutilato, sviscerato e infine bruciato.
Una settimana dopo la sua morte, si presentò al culto mattutino della Chiesa dei Redenti, dove ero pastore, un ospite inatteso. Avevo appena terminato la predicazione quando un amico mi portò la notizia. “Joseph Kiwanuka è qui! – mi disse sottovoce con tono eccitato. – Vuole parlare con te!”
Joseph Kiwanuka, detto “Joe Giocondo”, era uno dei cittadini ugandesi più ricchi e più influenti, fondatore dell’Ugandan National Congress [il partito che aveva preso il potere al momento dell’indipendenza dal regime coloniale – N.d.T.] ed ex deputato al Parlamento. Era anche un uomo testardo e prepotente. Era titolare di una grande attività di commercio all’ingrosso a Kampala e proprietario e direttore della squadra di calcio campione di Uganda, la Express. Circolava a Kampala con una lussuosa macchina rossa di fabbricazione americana, e i suoi comportamenti imprevedibili e totale disprezzo dell’opinione pubblica ne aveva fatto un personaggio leggendario. I suoi amici intimi lo avevano soprannominato Namawatulira, cioè: “Glielo dico io”, perché era un uomo che non conosceva i mezzi termini. Se considerava qualcuno uno sciocco, glielo diceva in faccia e senza peli sulla lingua. Più di una volta, mentre assisteva alle partite della sua squadra, si era precipitato in campo a fermare il gioco e, con una tempesta di aggressione verbale, aveva costretto l’arbitro a cambiare la sua decisione!
Con la stessa franchezza, Kiwanuka aveva reso note per tutta l’Uganda le sue opinioni in materia di religione. Era un ateo e un umanista che considerava la religione, sia tribale che occidentale, come uno strumento politico disumano usato dai potenti per opprimere i deboli e derubarli della libertà.
Ora, vedendo Kiwanuka che stava da solo a un lato del cortile, ero apprensivo. Era un omone alto più di un metro e ottantacinque e di corporatura grossa. Faceva la riga al centro della capigliatura, una moda che egli stesso aveva introdotto a Kampala (e che perfino l’ex-presidente Obote aveva imitato), e tutto il suo aspetto comunicava distinzione e arroganza.
Lo salutai in modo formale ma non si prese la briga nemmeno di stringermi la mano. “Owanga”, disse di punto in bianco, parlando nella lingua della nostra tribù, i Baganda, “lei sa cosa sta accadendo. Cosa ne dice?”
Sapevo che si riferiva alla crescente brutalità di Amin e dei suoi soldati, ma prima ancora che potessi rispondere, proseguì nel discorso:
“Come vede queste cose? – domandò con lo stesso tono intenso. – Pensa che Dio sappia che cosa sta succedendo? Pensa che ci aiuterà?”
Questo non è il solito Joe “Giocondo” Kiwanuka, pensai tra me e me, stranamente commosso: è un uomo disperato e sconfitto. Ma i miei sospetti nei confronti di quel personaggio ateo e bestemmiatore erano profondi, e gli risposi con le parole più neutrali della nostra lingua: “Se così vorrà”, dissi.
Kiwanuka rimase in silenzio. Mi guardò fisso per un istante e poi si allontanò, una figura remota e solitaria. Ebbi il desiderio di inseguirlo e dirgli qualcosa di più sostanzioso, ma non mi vennero le parole. Quando scomparì tra la folla, tornai indietro a salutare altri visitatori e membri della chiesa.
Fu all’inizio di novembre che Kiwanuka venne in chiesa per la seconda volta. Poi, dopo il culto, parlammo di nuovo. Con lo stesso tono serio, Kiwanuka ripeté le sue domande. “Lei come vede la situazione? C’è un Dio? Egli sa quello che sta accadendo?”
“Dio c’è”, risposi, dimenticando i miei timori e sospetti. “Lei ha riflettuto che dobbiamo darci interamente nelle Sue mani?”
“L’ho considerato – disse Kiwanuka con voce urgente. – Come bisogna fare?”
Insieme ci incamminammo verso una casetta posta a un lato del cortile e là pregammo, chiedendo a Dio di rivelarsi. Alla fine di quella preghiera, Kiwanuka piangeva. Allora riconobbi che qualche tremenda tensione aveva invaso la sua vita, e la profondità della sua sofferenza fece piangere anche il mio cuore. Più tardi seppi che, contro la sua volontà, era stato presente alla tortura e alla morte del capo della magistratura dell’Uganda, uomo che aveva amato profondamente. In quel momento, mentre Kiwanuka contemplava i resti mutilati del suo amico, le fondamenta della sua vita erano crollate. Lui e il capo della magistratura avevano lavorato insieme per più di vent’anni, sacrificando se stessi per fare dell’Uganda un paese forte e libero. Ora sembrava che la vita di entrambi era stata vissuta invano.
Quando Kiwanuka ebbe finito di piangere, stette un momento in silenzio. Poi si rivolse verso di me con uno sguardo serio ma più sereno e disse: “C’è dunque un Regno”.
Furono parole strane, che non comprendevo fino in fondo. Ma capii che era iniziata una nuova vita per Kiwanuka e, mentre ci abbracciammo, la potenza di Dio nella sua vita diede nuova forza e coraggio anche a me.
Quindici giorni dopo, alla fine del nostro culto domenicale, Joseph Kiwanuka stette davanti ai membri riuniti della Chiesa dei Redenti e parlò della grazia di Dio.
“Da sempre – egli disse con voce forte e deciso – vado cercando un regno. Cercavo un regno di libertà. Credevo nella bontà dell’uomo e credevo che gli uomini e le donne potessero imparare ad amare. Ma ora vi dico che l’uomo buono non esiste. Se Dio ci lasciasse nelle nostre condizioni naturali, mangeremmo l’erba come le capre”.
Mentre Kiwanuka proseguì la sua voce risuonava per tutto il cortile. “Ma Dio non ci ha lasciati! – egli esclamò. – Ha fatto per noi il regno che non possiamo fare da noi. Ci ha salvati dalla nostra corruzione e crudeltà. Le catene della nostra malvagità sono state spezzate. Sono io, Joseph Kiwanuka, che parlo, e so di che cosa parlo! Ho incontrato l’uomo di libertà, Gesù Cristo. I miei peccati mi sono stati perdonati. Sto davanti a voi come un nuovo membro del regno di Dio”.
Questa confessione pubblica di Gesù Cristo da parte di Kiwanuka fece molto scalpore. Entro pochi giorni l’intera città di Kampala ripeteva la notizia: “L’avete sentita? Joe «Giocondo» è diventato un «Alleluia»!” Si ripeteva la storia tra scetticismo e risate. Kiwanuka era stato troppo notorio, le sue opinioni religiose troppo estreme, perché la gente credesse facilmente nella sua conversione. Anche all’interno della chiesa stessa molti membri rimanevano cinici. Più di una volta sono stato avvertito di stare in guardia. Kiwanuka, si diceva, stava usando la sua identificazione con la chiesa per promuovere le proprie ambizioni politiche.
Kiwanuka era a conoscenza di queste critiche, ma non ci faceva caso. Continuava a parlare con franchezza della sua nuova vita in Cristo, e centinaia di persone da ogni parte dell’Uganda cominciavano ad affluire nella Chiesa dei Redenti la domenica mattina solo per vederlo seduto in una chiesa. In privato, divenne un uomo di profonda devozione. Passava molte ore in digiuno e in preghiera, e sin dall’inizio studiava la Bibbia con grande serietà.
La maturità e l’impegno di Kiwanuka mi divennero presto evidenti, e nel gennaio del 1973 lo stabilii come presidente del consiglio della chiesa. Anche allora molti non erano convinti della sua sincerità. Solo mesi più tardi, in mezzo a grandi sofferenze e tristezza, vedemmo tutti con grande chiarezza ciò che Dio aveva fatto nella vita di Joseph Kiwanuka.
Nell’aprile del 1973, insieme con mia moglie Penina e nostra figlia Damali, partii per l’Olanda per un’estate di studio. Quando tornammo in Uganda, il 16 settembre, fummo costretti a entrare subito nella clandestinità. Appena qualche giorno prima, ci riferirono, dei soldati armati avevano fatto irruzione nel culto di venerdì sera della Chiesa dei Redenti. Molti degli anziani – fra i quali però non c’era Kiwanuka – erano stati trascinati via nel carcere di Makindye. Là, durante un interrogatorio brutale durato tutta la notte, erano stati picchiati al punto che molti avevano vomitato sangue. La mattina seguente erano stati rilasciati a condizione che trovassero il predicatore Sempangi e lo consegnassero alla polizia.
Quella sera molti degli anziani vennero alla casa dove eravamo nascosti. Kiwanuka fu uno dei primi ad arrivare. Molti degli altri uomini avevano il volto contuso e sfigurato. Penina ed io parlammo con gli anziani per gran parte della notte, ascoltando le notizie dei membri e considerando il futuro della chiesa. Verso la fine del nostro tempo insieme, i nostri pensieri si rivolsero in maniera spontanea alla resurrezione: questa non era più un’idea remota, ma una realtà concreta, qualcosa che era così vicino che dava potenza alla nostra vita.
“È a motivo della resurrezione che siamo liberi – disse Kiwanuka, parlando con grave dignità. – Non siamo schiavi di questa vita, né del nostro timore della morte. Siamo schiavi di Gesù Cristo, ed egli è risorto dalla tomba”.
Uno degli anziani che era stato nel carcere di Makindye annuì. Aveva il volto pieno di lividi e gli era stato rotto il naso. “Siamo perseguitati per la speranza che è in noi – disse. – La nostra speranza è la resurrezione. Non abbiamo motivo di preoccuparci, Cristo si prenderà cura di noi”.
Dopo che ebbero parlato diversi altri, un fratello che era medico si chinò in avanti. Parlò in una voce bassa e seria e il suo spirito sembrava molto distante. “Ho toccato molti cadaveri – disse. – E ogni giorno ne arrivano sempre di più. «Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà». Ve lo dico io, conviene ascoltare fino in fondo uno che parla così”.
Quando finalmente gli anziani se ne andarono, era quasi giorno. L’ultimo a partire fu Kiwanuka. Mi afferrò le braccia con le sue mani grosse e sembrava più sicuro di sé e più felice che mai. “Devi saperlo ora – disse – che qualunque cosa avvenga, siamo pronti a morire. Non seguiamo più te, Kefa: seguiamo Gesù Cristo”.
Con queste parole uscì dalla porta. In fondo alle scale si girò per l’ultima volta prima di scomparire nella notte. “Arrivederci, Kefa – disse a voce bassa. – Ci vediamo domani”.
Per una volta nella sua vita, Joseph Kiwanuka aveva torto. Non ci saremmo più visti su questa terra.
Il giorno seguente fuggii dall’Uganda, pochi minuti prima della perquisizione ordinata da Amin. Con la mia famiglia mi ritrovai di nuovo in Olanda, appena quattro giorni dopo la nostra partenza. Gli amici mi trovarono una casa e un lavoro.
Nel mese di novembre uno degli anziani della chiesa, Adoniya Kirinda, mi telefonò da Londra. Anch’egli era riuscito a mala pena a mettersi in salvo. Non c’erano più riunioni pubbliche della chiesa, mi riferì, e gli anziani erano stati di nuovo minacciati. Kiwanuka stesso era ormai nei guai. Nei suoi continui sforzi di proteggere gli anziani, aveva irritato Hussein Malire, il capo del carcere Makindye e il più notorio assassino al servizio di Amin. Era solo questione di tempo perché Malire si vendicasse.
Penina ed io eravamo molto preoccupati per Kiwanuka, e per tutto il mese di novembre pregammo con insistenza per la sua incolumità. Nei primi giorni di dicembre ricevemmo la notizia che si era finalmente rifugiato in Kenia. Kiwanuka aveva combattuto fianco a fianco con Jomo Kenyatta, presidente della Kenia, durante la lotta per l’indipendenza dei paesi dell’Africa orientale e di conseguenza aveva molti amici negli alti ranghi del governo, fra i quali lo stesso Kenyatta. Ora questi amici gli promettevano di aiutarlo a stabilire una nuova attività. Aspettava solo che la sua famiglia lo raggiungesse.
Mi sentii sollevato nel sentire che finalmente Kiwanuka aveva lasciato l’Uganda, ma sapevo che Amin aveva molti agenti a Nairobi. Ero sicuro che non era ancora fuori pericolo e gli scrissi per esortarlo a raggiungermi in Olanda.
Kiwanuka non rispose alla mia lettera, e gli scrissi una seconda e poi una terza volta. Infine, due giorni prima di Natale, ebbi notizie da un altro profugo che mi comunicava che Joseph Kiwanuka era stato rapito dal Kenia e ucciso.
Solo più tardi ebbi informazioni più dettagliate della sua morte. Era stato rapito dalla sua stanza d’albergo a Nairobi e portato direttamente al carcere di Makindye. Dopo essere stato rinchiuso in cella e torturato per diversi giorni, era stato portato fuori nel cortile aperto, dove Amin e Malire lo aspettavano con dei martelli in mano. Kiwanuka li aveva salutati in maniera amichevole e, mentre cominciavano a colpirlo ripetutamente, aveva pregato ad alta voce perché il loro peccato fosse perdonato loro. Amin allora era caduto in preda a una rabbia incontrollata. Dimenticando il proprio desiderio di vedere il suo vecchio amico morire in maniera lenta e atroce, aveva afferrato una mazza che stava lì vicino e gli aveva dato un gran colpo in testa. Kiwanuka, con l’ultimo respiro, aveva invocato il nome di Gesù prima di cadere morto ai piedi del dittatore. Poi Amin gli aveva tagliato la testa e, dopo aver eseguito dei riti di sangue sul cadavere di Kiwanuka, aveva messo la sua testa nel congelatore. I suoi consiglieri infatti – così si diceva – gli avevano suggerito che, conservando la testa di Kiwanuka, sarebbe potuto diventare simile a “l’uomo più astuto dell’Uganda”.
Sentii la notizia della morte di Kiwanuka come un colpo fisico. Per diversi giorni non riuscivo né a mangiare né a dormire. Eseguivo i miei doveri come un sonnambulo, e quando cercavo di pregare, le mie preghiere sembravano rimbalzare dal soffitto. Non volevo più conoscere Dio. Come aveva potuto prendere Kiwanuka? Come potevo vivere senza più vederlo? senza più udire la sua risata o sentire il suo abbraccio forte? La mia depressione durò giorno dopo giorno, e divenni un estraneo anche a Penina e Damali.
Un pomeriggio, più di una settimana dopo la notizia della morte di Kiwanuka, mi rifugiai in camera, mi adagiai sul letto, la mente vuota, e cercai di riposare. Dopo qualche minuto, in dormiveglia, cominciai a sentire dei strani rumori nella stanza. Improvvisamente vidi davanti agli occhi una folla di persone vestite in colori vivaci. Stavano in una stanza addobbata a festa dove risuonavano canti e i suoni di festeggiamenti.
Altrettanto improvvisamente la scena mutò. Vidi una stanza buia affollata di uomini e donne vestiti a lutto. I loro visi erano segnati dal cordoglio; lamenti disperati mi tormentavano gli orecchi. In questa triste confusione udii la mia stessa voce che domandava con tono di accusa: “Dov’è Dio? In quale stanza è presente?”
Le figure tristi alzarono lo sguardo, meravigliate, e si misero da parte. Allora per la prima volta notai, seduti in mezzo a loro, un uomo e una donna che piangevano. Mi avvicinai per vederli meglio, e con un brivido li riconobbi. Era Gesù che piangeva insieme a Maria davanti alla tomba di Lazzaro.
La visione si allontanò e mi ritrovai di nuovo sdraiato nel letto. Mi girava la testa e risuonavano nei miei orecchi le parole di Marta davanti alla tomba di suo fratello: “Signore, egli puzza già, perché siamo al quarto giorno!”.
Cominciai a capire per la prima volta il significato della venuta di Gesù alla tomba dove puzzava quel cadavere. Egli si avvicinò a quel luogo di morte e di corruzione fisica, dove un uomo si disfaceva, e pianse. Presto sarebbe venuto anche per lui il momento della sofferenza: sarebbe morto su una croce insanguinata, torturato proprio da coloro che era venuto a salvare. La sua morte sarebbe apparsa come il grande trionfo finale di Satana e del regno delle tenebre. Ma la pazzia della croce, la bruttura di una morte terrificante, era”potenza di Dio e sapienza di Dio”. Gesù Cristo, il Salvatore sofferente del mondo, sarebbe entrato in quella tomba puzzolente e, come aveva risuscitato Lazzaro, avrebbe risuscitato i suoi figli alla vita eterna. “Il cristianesimo è resurrezione – udii dire la voce di Kiwanuka. – Non siamo più schiavi della morte”.
No, Dio non aveva dimenticato il suo popolo in Uganda. La nostra tristezza era solo per un tempo. Ciò che Joseph Kiwanuka e migliaia di altri martiri avevano seminato con lacrime, essi e tutta la chiesa con loro avrebbero mietuto con gioia.
Dopo la caduta del dittatore Amin nel 1979, l’Uganda ha sofferto ancora per diversi anni una situazione di instabilità, guerra civile e banditismo. Attualmente gode di un regime di relativa pace e libertà, ma è minacciata da un nuovo flagello: l’epidemia dell’AIDS, che ha già mietuto migliaia di vittime e ha infettato larghe fasce della popolazione, lasciando altre migliaia di orfani.
Idi Amin ha vissuto tranquillo in Arabia Saudita, dove gli era stato concesso l’asilo politico nonché una lauta pensione governativa, fino al giorno della sua morte.
Tratto dal libro A Distant Grief di Kefa Sempangi, @ 1979 Gospel Light Publications, California.