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di Ernesto D. Bretscher
La nostra è un’era di individualismo sfrenato; in cui ognuno si preoccupa soprattutto di se stesso. Ma è anche l’epoca della crisi di identità. Sarà per i rapidi cambiamenti ai quali la nostra società è soggetta, o per i numerosi modelli che si alternano all’attenzione della gente, o per il ribaltamento dei valori; sta di fatto che ognuno cerca di emergere e di darsi l’immagine migliore. Termini quali “riuscire”, “farsi una posizione”, “scavalcare”, “emergere”, “farsi promuovere”, “diventare qualcuno”, “essere uno che conta”, e altri simili, illustrano fin troppo bene gli orientamenti dell’uomo di oggi.
E la chiesa non sfugge da questo fenomeno dell’affermazione di se stessi e delle lotte di potere. I suoi figli sono anche figli “dello spirito di questo secolo” (vedi Gal. 1:4), per cui non c’è da meravigliarsi se le problematiche della gente del mondo siano anche le sue. Ritroviamo infatti nelle chiese vicende spesso molto simili a quelle del mondo laico, talvolta addirittura peggiori … soltanto abilmente camuffate di “abiti religiosi”, di pietà evangelica e di ragionamenti biblici.
Da qui deriva l’inevitabile e illimitato frazionamento delle chiese. Divisioni, questioni dottrinali, competizioni, gelosie, invidie, paure e insicurezze – frutto dell’individualismo del nostro secolo – fanno della chiesa un organismo smembrato, dilaniato e dissanguato. A dir il vero, osservando la chiesa nelle sue espressioni contemporanee, pare di ritrovare lo spirito che anima i partiti politici: le stesse lotte e tensioni, le medesime liti e fratture, simili conflittualità e competizioni. E in queste condizioni si vorrebbe ancora evangelizzare il mondo e insegnargli a vivere secondo gli insegnamenti di Dio, pretendendo addirittura che Dio confermi la nostra testimonianza con la Sua!
Abbiamo proprio bisogno della misericordia di Dio: che Egli ci apra gli occhi e ci conceda di vederci come ci vede Lui, e quindi di ravvederci. Dobbiamo uscire dalla “cappa di illusione” sotto la quale ci siamo rifugiati e affrontare la situazione da uomini maturi, in maniera profondamente onesta.
Carnalità
L’apostolo Paolo afferma con decisione che “in noi non c’è alcun bene” (cfr. Rom. 7:18), per cui, se la nostra vita cristiana dipenderà solo dalle nostre capacità naturali, non sarà migliore di quella della gente intorno a noi. Pur con un credo biblico, delle abitudini più sane, una morale più pulita, alla fine il grido di Paolo è anche il nostro: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom. 7:24).
Dobbiamo riconoscere che la nostra cristianità, sia sul piano individuale che su quello comunitario, è ancora troppo spesso impregnata di “spirito del secolo”. Per quanto credenti biblici e religiosi, impegnati nelle nostre comunità, tendiamo ancora a vivere per noi stessi. Questo fa parte della nostra natura!
Anche se siamo nati di nuovo e, secondo la Bibbia, “le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove” (2° Cor. 5:17), basta guardare con occhi onesti la realtà della nostra esistenza quotidiana per renderci conto che, sul piano dell’esperienza, le cose vecchie non sono ancora tutte passate! Mentre affermiamo che Gesù è il Signore, in tante sfere della nostra esistenza continuiamo in pratica ad agire da “signori” di noi stessi.
Se vogliamo cambiare ed essere come il Signore, dovremo avere il coraggio di ammettere i nostri insuccessi. Finché il nostro “io”, ossia il nostro vecchio uomo, terrà le redini della nostra vita quotidiana, né noi né le nostre chiese potranno riflettere Cristo. Non è possibile vivere sotto l’influenza del vecchio uomo per dodici ore e per la tredicesima sotto quella dell’uomo nuovo.
Il nostro guaio è che diamo poca importanza al problema, addirittura non vogliamo ammettere la sua esistenza. Diciamo di essere nati di nuovo, magari siamo stati una volta battezzati nello Spirito Santo e parliamo in lingue nuove, per cui, gloria a Gesù, tutto va bene!
La triste condizione in cui versa la chiesa ci dice che, invece, non va bene. E non può essere diversamente se la chiesa è formata da persone che, pur affermando di essere creature nuove, continuano a vivere essenzialmente per se stesse.
Il nostro peccato
Se dobbiamo dare una definizione del peccato, credo che la più semplice sia questa: vivere per se stessi. La legge e i comandamenti di Dio sono stati dati per insegnarci a vedere quanto viviamo per noi stessi: “Io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della legge” (Rom. 7:7).
Ora, la Parola di Dio ci dice che Cristo “mori per tutti, affinché quelli che vivono non vivano pia per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2° Cor. 5:15). Ma cosa significa “non vivere più per noi stessi”? Non significa forse vivere unicamente per Gesù, qualunque sia la nostra condizione o situazione individuale, familiare o sociale? E questo comporta una rinuncia alle nostre ambizioni personali, alla corsa al soddisfacimento dei nostri interessi, alla ricerca di status, posizioni, approvazioni, riconoscimenti. Significa chiudere con noi stessi e metterci interamente a disposizione del Signore.
Questo non vuol dire lasciare il lavoro, le proprie responsabilità, la famiglia, gli amici, il proprio “entourage”. Piuttosto è fare di Lui la mia unica ambizione, il mio interesse, la mia vera identità e realizzare che sono stato fatto per Lui e vivo per Lui. Per quel che riguarda i riconoscimenti e la posizione nella società, lascio fare a Lui: sono Suo ormai! Mi interessa solo Lui, adempiere i Suoi desideri, realizzare i Suoi disegni, fare la Sua volontà, piacere a Lui. Nella mia esistenza, in famiglia come sul lavoro, mi esprimo, produco, costruisco, solo per servire Lui: ricerco i Suoi interessi, la Sua approvazione, la Sua soddisfazione.
Solo allora, e non prima, la Chiesa inizierà ad essere del Signore, per il Signore, l’espressione della Sua vita. È scritto: “L’Eterno crea una cosa nuova sulla terra: la donna che corteggia l’uomo” (Ger. 31:22). Non più la donna che aspetta di essere corteggiata dall’uomo – la Chiesa dal Signore – ma il contrario, la Chiesa che corteggia il suo Signore! Intanto, in attesa che questo accada, il Signore attende con pazienza: “Non svegliate l’amor mio finché essa non lo desideri” (Cant. 3:5).
Non verrà il risveglio finché la Chiesa non desideri il Signore più di ogni altra cosa! Questa sarà la svolta, la grande rivoluzione. Una gente che cercherà il Signore per vivere in totale dipendenza da Lui; che potrà affermare di essere una nuova creatura perché è in Cristo. D’altronde, non è forse proprio questa la novità del cristianesimo rispetto a tutte le altre religioni? Incontriamo forse spesso gente che ha rinunciato a vivere per se stessa?
Gesù ha detto: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Matt. 16:24). Nessuno può seguire Gesti e continuare a vivere per se stesso. La strada è una sola: la crocifissione, la morte! E in Luca 9:23 è detto: “… Prenda ogni giorno la sua croce”. E una decisione, un impegno che deve rinnovarsi ogni giorno, perché ogni giorno l’uomo vecchio tende a riemergere.
Ma vediamo cosa significa in pratica questa rinuncia.
“L’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo sia conservato irreprensibile …” (1° Tess. 5:23). Il corpo è la sede dei nostri cinque sensi. L’anima è la nostra vita naturale: pensieri, emozioni e volontà. Lo spirito è l’uomo interno (Rom. 7:22): la sede della coscienza, della comunione con Dio e dell’intuizione (che comprende, tra l’altro, la capacità di percepire la guida di Dio).
L’uomo naturale è solitamente governato dalla sua mente dalle sue emozioni, anche se gli appetiti del corpo fanno anch’essi la loro parte (vedi i vizi della gola, del fumo, i desideri sessuali perversi). La Bibbia chiama “carnale” l’uomo che è governato dalla sua anima, anche se ha creduto in Cristo.
Nel momento in cui una persona si arrende a Gesti, ha luogo un evento sovrannaturale: la vita di Dio rigenera lo spirito spento dell’uomo. E così inizia una nuova fase. Appare in scena l’uomo nuovo, capace di “sentire” Dio, di intuire la sua guida e di ricevere avvertimenti e correzione da una coscienza rinnovata. È un uomo deciso a vivere interamente per Dio e ad essere la casa dello Spirito Santo (1° Cor. 3:16-17).
Ma è qui che nasce il problema: l’uomo vecchio, cioè l’anima e il corpo, è ancora ben vivo e vegeto. Inizia un violento conflitto di competenza e di governo. L’uomo spirituale vuole vivere la vita di Dio, l’uomo naturale invece vuole vivere per se stesso. E di questo conflitto che Paolo parla in Romani 7: “Io mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo interno, ma vedo un’altra legge nelle mie membra che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra” (7:22-23).
Un conflitto duro … chi lo vincerà? In pratica, succede di solito che si raggiunge un “armistizio” basato sul compromesso. L’uomo naturale promette di non dare fastidio all’uomo spirituale, di non calpestare la sua coscienza, di comportarsi secondo la legge di Dio (per quel che gli riesce), di dedicare qualche ora settimanale al culto e alcuni minuti ogni giorno alla devozione personale. Lo spirito, ossia l’uomo interno, da parte sua non pretenderà il governo assoluto su tutta la persona, la rinuncia dell’io, la ricerca “ad oltranza” della faccia del Signore. E il gioco è fatto: pacifica convivenza! Si è in pace con se stessi, bravi credenti, onesti cittadini, ma … uomini carnali!
L’uomo naturale continua a tenere le redini della vita sia nelle faccende quotidiane che in quelle della chiesa, avvolto però da un bel manto religioso. La mente umana, i ragionamenti, le esperienze, le emozioni, continuano a farla da padroni. Ecco perché la chiesa è ancora così marcata dallo spirito di questo secolo …
Ma le cose devono cambiare. Per me, per te, per noi tutti, se vogliamo che venga il Suo regno e sia fatta la Sua volontà anche in terra, come in cielo, non deve più esserci posto per l’individualismo. Il mio “uomo vecchio” dovrà morire veramente!
La via della croce
L’apostolo Paolo poteva esclamare: “Non sono pi ù io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal. 2:20). Chissà quante volte anche noi l’avremo detto … Signore, perdonaci!
Ma che bello constatare che lo scrittore di Romani 7 è lo stesso di Galati 2! Sì, una via d’uscita c’è, e possiamo riassumerla così:
- Prendere coscienza che in me, per quanto credente, non c’è nulla di buono (Rom. 7:18). Io, con tutto il mio impegno, non riuscirò mai a fare qualcosa che possa piacere a Dio.
- Dichiarare fallimento ad ogni mio tentativo di essere o di diventare un uomo spirituale (2° Cor. 12:9-10). È necessario fare l’esperienza della canna rotta: senza morte non c’è resurrezione.
- Chiedere perdono di cuore a Dio per aver continuato a vivere per me stesso (1° Gv. 1:8-9).
- Prendere atto che ho bisogno del Signore come un ramo innestato nella pianta. Da Lui e solo da Lui la mia esistenza può ricevere vita (Gv. 15:5).
- Quindi decidere ogni giorno di nuovo di non contare più su me stesso e di non voler più vivere per me stesso.
- Infine, iniziare a cercare il Signore regolarmente e sul serio, arrendermi a Lui e ricevere la grazia per poter vivere per Lui. “Voi m’invocherete, verrete a pregarmi e io v’esaudirò. Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; e io mi lascerò trovare da voi, dice l’Eterno, e vi farò tornare dalla vostra cattività”, è scritto (Ger. 29:12), e ancora: “Cercate l’Eterno e la sua forza, cercate del continuo la Sua faccia” (Deut. 16:11).
È solo prostrandosi a Suoi piedi, contemplando la Sua Signoria, la Sua benevolenza, la sua grazia, e nello stesso momento il nostro profondo bisogno di Lui, che riceviamo la forza e la capacità di morire a noi stessi. Cercando la Sua faccia, riusciamo ad entrare nella Sua presenza perché il nostro spirito riceva l’unzione e la forza per dominare sulla carne. Solo allora l’esortazione paolina: “Camminate secondo lo spirito [l’uomo interno] e non adempirete i desideri della carne” potrà finalmente divenire realtà.
Adorazione, la via della croce
È con una vita di adorazione del Signore, di ricerca della Sua faccia, di resa totale a Lui che potrà esserci trasmesso tutto quello che Dio è. Allora il frutto del nostro spirito diventerà quello di Galati 5:22: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza nei confronti di tutti, buoni e cattivi (vedi Matt. 5:44-48). La vita di Dio stesso prenderà il controllo della nostra vita, talché finalmente anche noi potremo dire: “Non sono più io che vivo, ma Cristo”. È per questo che la “tenda di Davide” deve essere ricostruita e le sue rovine restaurate e rimesse in piedi: “affinché il rimanente degli uomini e tutte le genti su cui è invocato il mio nome cerchino il Signore” (Atti 15:16-17).
Che cosa era questa tenda di Davide? Era una comunità di musicisti, cantori e adoratori che avevano il compito di cercare il Signore, celebrando il Suo nome, la Sua grandezza e la Sua benevolenza, ricordando la Sua fedeltà, proclamando e ricordando la Sua parola, giorno e notte! (1° Cron. 16, 25). Era una celebrazione continua della grandezza del Signore per ricordare a tutti il bisogno vitale che avevano di dipendere dalla Sua grazia e dalla Sua forza.
Qualcosa di ben diverso delle nostre “preghiere” concentrate sui nostri bisogni personali, il cui centro non è il Signore ma, ancora una volta, noi stessi. Abbiamo bisogno di imparare da capo a pregare, a stare nella presenza di Dio, contemplando chi egli è. Per questo il primo comandamento è: “Ama il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze” (Mc. 12:30).
Concentra tutti i tuoi pensieri, tutta la tua vita, tutti i tuoi desideri su Lui e non su te stesso, i tuoi problemi, i tuoi bisogni, le tue necessità. E questa la via della croce. Prima di dire: “Dacci il nostro pane quotidiano”, impariamo a dire: “Non la mia volontà, ma la tua sia fatta!” (Lc. 22:42). “Bisogna che Egli cresca, e che io diminuisca” (Gv. 3:30). Dio promette la Sua approvazione e la Sua presenza solo a chi “è umile e contrito di cuore” (Is. 57:15).
Prostriamoci dunque ai Suoi piedi, facciamoci da parte, dimentichiamoci per un po’ e concentriamo lo sguardo interamente su di Lui. Cerchiamo il suo regno, i suoi interessi, la sua approvazione, la sua gioia, e la sua vita ci inonderà. Più benediremo Lui, più Egli benedirà noi. Più staremo nella Sua presenza per adorarlo, più Egli riverserà su di noi la Sua vita, la Sua natura, la Sua essenza.
Inizieremo così ad amare come Dio ama: a servire, a benedire, a sopportare, come solo Lui sa fare. Impareremo a sopportare il carattere difficile degli altri e con la Sua misericordia riusciremo a sopportare, ad affrontare e a vincere le sofferenze, le ingiustizie, le pressioni e le tentazioni della vita. Proprio come Gesti, sapremo dire: “Non la mia, ma la Tua volontà sia fatta”.
Non ci faranno più paura parole come autorità, sottomissione, obbedienza perché … “non sono più io che vivo”! Sapremo metterci da parte per fare spazio e dare fiducia agli altri. Sapremo incassare silenziosamente rimproveri, fraintesi, accuse e torti. Sapremo finalmente controllare, dominare e dirigere le nostre emozioni, le nostre reazioni e i nostri pensieri per il bene, la pace e l’edificazione dei rapporti. E così Dio potrà fare di noi una chiesa che sia veramente bella, diversa, desiderata dagli uomini. E si adempirà la profezia: “E tutte le genti su cui è invocato il mio nome, cercheranno il Signore”.
Ricordiamo le parole di Gesù: “Io sono la vite, voi i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv. 15:5).
Ma lo crediamo veramente? Aiutaci, Signore!