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di Geoffrey Allen
Ormai si è imposto all’attenzione di tutti: riempie i telegiornali e si insinua persino nei telefilm, striscioni sulle facciate delle chiese, manifestazioni speciali dappertutto …
Ma bisogna riconoscere che probabilmente non un cattolico su cento (forse neanche uno su mille!) comprende bene quale sia il significato di questo tanto chiacchierato “Grande Giubileo”. Per i più, è semplicemente un avvenimento tra il religioso, il turistico e il folcloristico che serve per dare moltissima pubblicità a Roma, al Vaticano e al Papa e, magari, “far pensare un po’ di più alla religione”. Bisogna anche prendere atto che ci sono stati degli sforzi per dare ad alcune manifestazioni un contenuto più vicino al Vangelo: si parla di conversione, di pentimento dai propri peccati, di ritorno a Dio, e tutto questo ben venga. Particolarmente degne di apprezzamento sono le varie iniziative per riconoscere e chiedere perdono per le ingiustizie, i soprusi e le persecuzioni commessi in passato in nome di Cristo e del Cattolicesimo.
Tuttavia, nei suoi contenuti essenziali, il “Giubileo” cattolico non ha nulla a che vedere né con il Giubileo biblico dell’Antico Testamento, né tantomeno con la fede cristiana biblica ed evangelica.
Ma cos’è, allora, questo “Giubileo”?
Il termine “Giubileo” non ha nessun collegamento – come invece si potrebbe facilmente pensare – con la parola “giubilo” o il verbo “giubilare”. Deriva invece dalla parola ebraica yobel, “montone”, da cui “corno di montone, tromba”: strumento usato, seconda la legge dell’Antico Testamento, per annunciare l’inizio dell’“Anno del giubileo” (Lev. 25:9).
Il Giubileo israelitico
Il regolamento biblico sul “Giubileo” si trova nel capitolo 25 del libro del Levitico. Fa parte non dei regolamenti per il culto religioso, ma piuttosto della legislazione socio-economica data da Dio ad Israele. Se ha un significato “religioso”, è dunque solo nel quadro generale del riconoscimento di Dio come Signore di tutta la vita – quindi anche del lavoro e della vita economica – e in particolare, del Suo diritto di proprietà sulla terra, che Egli dà in concessione e amministrazione al Suo popolo, stabilendo anche le regole per il suo uso. Va notato tra l’altro che con la legge della decima (Lev. 27:30-33) Dio stabilisce una specie di “affitto” sulla terra da pagare al suo Proprietario (o per l’esattezza, qualcosa più simile al sistema storico della “mezzadria”… solo che Dio si mostra un Padrone molto buono e generoso, e per l’usufrutto della Sua terra richiede non la metà, ma solo il dieci per cento di tutto ciò che essa produce!)
Così come agli Israeliti è stato dato il comandamento del riposo settimanale del sabato – ricordo della creazione del mondo da parte di Dio (Es. 20:8-11) – anche per la terra viene stabilito un riposo (ebr. shabat): ogni settimo anno non va coltivata ma lasciata a “riposare” (Lev. 25:1-7). Dio promette di benedire i raccolti del sesto anno e di renderli talmente abbondanti da bastare per due anni, anzi, addirittura per tre (vv. 20-22). Accingersi a osservare questo “sabato” della terra, oltre ad anticipare le moderne conoscenze ecologiche (i danni ai terreni provocati dalle “monocolture intensive”), è dunque un atto di fede, precursore dell’insegnamento di Gesù di non preoccuparsi per il domani ma di confidare nell’amorevole provvidenza di Dio (Matt. 6:25-34). E, ovviamente, il riposo della terra si traduceva anche in riposo per i lavoratori della terra, i quali disponevano in questo modo di un anno intero ogni sette in cui dedicarsi maggiormente a Dio e alle questioni della fede.
Ogni sette “settimane di anni”, poi, nel 50° anno, venne l’anno del Giubileo, un “anno sabbatico straordinario” che si aggiungeva a quello “ordinario” immediatamente precedente. In quest’anno:
- tutte le terre – distribuite dopo la conquista di Canaan tra le tribù e le famiglie d’Israele – tornavano ai proprietari ereditari originali;
- tutti i debiti venivano annullati;
- tutti gli schiavi israeliti – ridotti in servitù a causa dei debiti – tornavano liberi. [1]
Le lezioni del giubileo biblico
Da questa legge, ai nostri occhi senz’altro “curiosa”, possiamo trarre delle lezioni importanti, ricordando che tutte le cose contenute nel Vecchio Testamento “sono state scritte per ammonire noi …” (1° Cor. 10:11).
- Dio si interessa della vita quotidiana: lavoro, soldi e come è ordinata la società, e pretende anche il diritto di regolamentarla. In questo capitolo del Levitico, Egli insiste: “Le terre non si venderanno per sempre; perché la terra è mia …”; “I figli d’Israele sono i miei servi! … Io sono il Signore vostro Dio” (vv. 23,55). Allo stesso modo, nel Nuovo Testamento si sottolinea ripetutamente: “Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo del Signore”; “Non appartenete a voi stessi, perché siete stati comprati a caro prezzo” (Rom. 14:8, 1° Cor. 6:19-20). La nostra vita, il nostro tempo, le nostre energie, i nostri talenti apparteniamo a Dio che ci ha creati e ci ha comprati; di conseguenza Gli appartengono anche i nostri beni, di cui siamo amministratori per conto Suo. “Guàrdati dal dire in cuor tuo: “La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze” … È Il Signore tuo Dio che ti dà la forza per procurarti ricchezze …” (Deut. 8:17-18).
Inoltre, è molto significativo il tipo di sistema economico che Egli stabilisce per Israele, che si può definire una via di mezzo tra capitalismo liberale e socialismo. Infatti c’è la libertà d’impresa e della proprietà privata per quel che riguarda ogni altra forma di ricchezza a eccezione della terra: “Se uno vende una casa da abitare in una città cinta di mura, avrà il diritto di riscattarla entro un anno dalla vendita; il suo diritto di riscatto durerà un anno intero. Ma se quella casa, posta in una città fortificata, non è riscattata prima del compimento di un anno intero, rimarrà per sempre proprietà del compratore e dei suoi discendenti; non sarà più restituita al giubileo” (vv. 29-30). Viene così assicurato che l’uomo “mieta quello che semina”: l’ingegno e la fatica gli consentiranno la possibilità di prosperare, mentre il pigro e l’incosciente impoveriranno (temi su cui il Libro dei Proverbi ha molto da dire).
Ma nello stesso tempo, il meccanismo fortemente ridistributivo del “Giubileo” assicura a ogni famiglia – anche a quelle che per disgrazia, incapacità o incoscienza fossero diventate indigenti – i mezzi essenziali per poter lavorare dignitosamente e provvedere alle proprie necessità. I figli così non dovranno soffrire per le mancanze dei genitori o degli antenati, ed è reso impossibile che si venga a creare una classe di latifondisti e un’altra di nullatenenti. È la risposta di Dio ai problemi della povertà e della disoccupazione! Dio esprime così la propria cura benevola e l’uguaglianza di dignità che attribuisce a tutti gli esseri umani. Nella stessa direzione vanno anche le esortazioni a non rifiutare i prestiti ai bisognosi, quando la prossimità del Giubileo aumenta le probabilità che questi non vengano restituiti (vv. 35-38, Deut. 15:7-11).
Un simile sistema di ridistribuzione delle risorse è anche atto a garantire la pace sociale. Infatti la storia insegna che sono proprio le disuguaglianze esasperate a provocare le rivoluzioni (vedi l’esperienza francese e quella russa): altra lezione per i fautori della liberalizzazione totale dell’economia di mercato …
- Il Giubileo prefigura anche una realtà futura e spirituale. Il principio fondamentale del Giubileo è quello della grazia: i debiti vengono annullati, gli schiavi liberati e le terre restituite, tutto questo non per merito dei debitori, ma unicamente per disposizione misericordiosa di Dio. Questa “ombra di cose che dovevano avvenire” prefigura la venuta di Cristo a pagare il prezzo del riscatto per tutti. E infatti Gesù, all’inizio del proprio ministero, proclama nella sinagoga di Nazaret – citando il profeta Isaia – di essere venuto per “annunciare la liberazione ai prigionieri … a rimettere in libertà gli oppressi, e a proclamare l’anno accettevole del Signore” (Luca 4:18-19).
Indubbiamente quest’ultima espressione è un riferimento al Giubileo, “l’anno accettevole” ossia “anno di grazia del Signore”. E da allora, per tutto il tempo in cui viene predicato il Vangelo (detto appunto “l’era della grazia”), è tempo di liberazione e di perdono, un “Giubileo” continuo, come afferma anche l’apostolo Paolo: “Eccolo ora il tempo favorevole; eccolo ora il giorno della salvezza!” (2° Cor. 6:2).
Un’applicazione più concreta del principio biblico del Giubileo viene invece espressa ai nostri giorni dal movimento internazionale “Giubileo 2000”, iniziativa popolare promossa soprattutto dalle chiese e dalle organizzazioni non governative di ispirazione cristiana, e successivamente sposato in varia misura anche da diversi governi (compreso quello italiano), che durante gli ultimi anni si è battuto con notevole successo per l’annullamento dei debiti internazionali dei Paesi più poveri del mondo, basando il suo appello sui principi biblici della giustizia e della misericordia.
Il giubileo cattolico
Da quanto sopra, deve essere evidente – come riconoscono anche i cattolici più informati e imparziali – che il “Giubileo” o “Anno Santo” della Chiesa cattolica non ha praticamente nulla in comune con quello biblico: nemmeno la periodicità, che attualmente è ogni 25 anni, contro i 50 di quello biblico (senza contare quelli “straordinari” come quello del 1983). Infatti la “Bolla” papale di proclamazione dell’Anno Santo o “Giubileo” non contiene nessun riferimento al Giubileo biblico dell’Antico Testamento.
Proclamato per la prima volta dal papa Bonifacio VIII nel 1300, il “Giubileo” cattolico ha come tema fondamentale quello del pellegrinaggio religioso per ottenere (o, per usare i termini ufficiali della teologia cattolica, “acquistare” o “lucrare”) l’indulgenza proclamata. È un fatto religioso, anziché economico e sociale (se si lascia da parte il fatto che comunque ha sempre rivestito anche una notevole importanza economica per la Chiesa Cattolica e per le sue istituzioni).
Il concetto di “indulgenza” non è facile da spiegare, ma si basa sul concetto che il perdono dei peccati – che per i cattolici passa necessariamente attraverso la confessione e l’assoluzione per mezzo di un sacerdote – non chiude il conto, ma resta comunque una pena da scontare. All’origine, pare che questa cosiddetta “pena temporale” fosse la misura disciplinare che le chiese primitive – come d’altronde tutte le chiese che si rispettino – applicavano in caso di peccati pubblici gravi e scandalosi (omicidio, adulterio, apostasia …) Il credente colpevole di simili peccati viene perdonato da Dio appena si pente e chiede perdono con tutto il cuore (“Ai figli degli uomini saranno perdonati tutti i peccati e qualunque bestemmia avranno proferita” – Mc. 3:28; “Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” – 1° Gv. 1:9). Ma, per mettere alla prova la realtà del pentimento (dal momento che solo Dio conosce i cuori), e per attenuare lo “scandalo della grazia” che potrebbe indurre credenti e non credenti a prendere sotto gamba la gravità del peccato, si richiedeva un “periodo di prova” prima di riaccogliere tali credenti nella piena comunione della chiesa. Nacque così la categoria dei “penitenti”. Dopo la morte, ovviamente, nessuno dei due motivi rimane valido.
Col passare del tempo, però, si perdeva progressivamente di vista la realtà della grazia e della remissione di peccati, e si considerava sempre di più questa disciplina non più come “prova” ma come “punizione”. Nello stesso tempo – forse perché ci si poneva la questione: “Che ne sarà di chi rifiuta la disciplina? e di chi vive la propria vita cristiana nel compromesso?”, si andò delineando la teoria del purgatorio, cioè di uno stato dopo la morte in cui l’anima dei cristiani “non santificati” doveva “purificarsi” prima di poter accedere alla presenza di Dio.
Più tardi ancora, la Chiesa Romana (non risulta che le Chiese orientali abbiano mai adottato una pratica del genere), basandosi sul preteso “potere delle chiavi”, istituì la pratica dell’indulgenza, cioè del “condono” di questa “pena temporale”, sia come esenzione dalla pratica “penitenziale” richiesta in questa vita, sia dall’eventuale necessità di scontarla successivamente nel purgatorio. Com’è noto, fu proprio questa pratica delle indulgenze (e non solo lo scandaloso abuso della loro “vendita”) a provocare Martin Lutero a proporre le sue polemiche “95 tesi sul potere ed efficacia delle indulgenze”, la scintilla che fece partire la Riforma protestante.
Il concetto di “indulgenza” poggia dunque su questi due presupposti: il purgatorio e il potere della Chiesa di liberare da esso. Ma entrambi sono estranei al pensiero biblico:
- Per quanto riguarda il purgatorio, non vi troviamo nessun accenno nelle Scritture (le prime speculazioni in materia risalgono al secolo IV d.C.). Noi – per citare le parole del Credo – “crediamo nella remissione [totale] dei peccati”. E, se già durante questa vita “contemplando … la gloria del Signore, siamo trasformati nella sua stessa immagine” (2° Cor. 3:18) – tale trasformazione riguarda ovviamente la nostra persona interiore, non il corpo – quando Cristo ritornerà e i morti in Lui risorgeranno, “saremo trasformati – non solo nel corpo, che “rivestirà l’immortalità”, ma anche totalmente nell’anima – in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba”. “Quando egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è” (1° Cor. 15:52, 1° Gv. 3:2). Tutto questo per la sola grazia di Dio.
- Ancor più discutibile è il concetto dell’indulgenza. Se dovessimo ammettere, per ipotesi, che Dio imponga alle anime un tormento purificatore nel Purgatorio, allora questo dovrebbe essere un “male assolutamente necessario” per il nostro bene, altrimenti Dio risulterebbe cattivo e crudele a farci soffrire quando poteva evitarlo. Con quale diritto, allora, la Chiesa si assume il diritto di abrogarlo? Vorrebbe dire essere più buona e più potente di Dio stesso … Noi continuiamo a sostenere le ragioni del monaco e teologo cattolico dott. Martin Lutero, quando scrisse nel 1517: “Il papa non può né vuole rimettere altre pene all’infuori di quelle imposte dalla sua propria autorità o dal diritto canonico” (Tesi 5).
- Se poi l’indulgenza è intesa, come pretende la teologia cattolica, a liberare l’anima già in questa vita dalla “pena temporale”, oggi definita come “un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione” (Catechismo della chiesa cattolica, 1472), appare purtroppo evidente che non funziona! Non si nota infatti nella grande maggioranza dei cattolici che eseguono le pratiche prescritte per il “Giubileo” una liberazione miracolosa da ogni “attaccamento malsano alle creature”, una “santificazione istantanea”…
- E infine, se funzionasse – se la Chiesa avesse realmente questo potere straordinario di santificare le persone miracolosamente e di liberare i vivi e i morti dai tormenti del purgatorio – come mai decide di concedere questa “grazia” soltanto una volta ogni 25 anni? Sarebbe una “cattiveria” imperdonabile …! Come scrisse già Lutero, citando le obiezioni alle indulgenze avanzate dai “laici arguti”: “Perché il papa non svuota il purgatorio per il motivo nobile e giusto della santissima carità e della grande necessità delle anime, se poi ne redime un’infinità per il motivo assolutamente indegno dei miseri soldi per costruire una basilica?” (Tesi 82).
Per queste ragioni il “Giubileo cattolico”, che ruota tutto attorno al tema controverso delle indulgenze, costituisce un grave scandalo e ostacolo all’ecumenismo, cioè al riavvicinamento e la riconciliazione tra le diverse confessioni cristiane. Evidentemente il Vaticano, per i propri buoni motivi, ha deciso di dover dare maggiore peso alle istanze “interne” dei conservatori e tradizionalisti che non a quelle “esterne” del mondo protestante, e quindi di “sottolineare le cose che dividono piuttosto che quelle che uniscono”.
[1] Dal confronto con Deut. 15:1-18 risulta però ambiguo se questi ultimi due provvedimenti entravano in vigore ogni sette anni, con “l’anno sabbatico”, oppure solo al 50° anno, cioè al Giubileo – N.d.A.