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Massimo Loda
Qualche anno fa, mi è capitato di leggere in una rivista cristiana l’articolo di un noto uomo di Dio che metteva in guardia i credenti dalle persone troppo sicure di se stesse e delle verità che proclamavano.
L’autore sosteneva infatti che un certo margine di insicurezza ci costringe a stare sempre alla presenza di Dio per cercare da Lui la verità. Davanti a Pilato Gesù affermò: “Chiunque è per la verità ascolta la mia voce” (Giovanni 18:37 Nuova Diodati), presupponendo un tipo di ascolto che è relazionale e quindi continuo nel tempo. È perciò che l’orgoglio spirituale e la presunzione che spesso ci caratterizzano per il solo fatto di avere qualche informazione biblica in più rispetto alla massa dei cosiddetti “cristiani nominali”, devono fare i conti con una tremenda verità paolina: “Se qualcuno pensa di conoscere qualcosa, non sa ancora come si deve conoscere” (1° Corinzi 8:2).
L’apostolo Paolo pregava Dio, il Padre della gloria, perché uno spirito di sapienza e di rivelazione nella conoscenza di Gesù potesse caratterizzare in modo crescente i credenti (Efesini 1:17). Noi sappiamo bene che Dio fa grazia agli umili, ma resiste ai superbi di cuore (1° Pietro 5:5) e li disperde (Luca 1:51), distruggendone la casa con tutto ciò che significa in termini di sicurezza, rifugio e limiti (Proverbi 15:25).
Se dunque la rivelazione di Gesù è continua e la piena conoscenza di Lui si avrà quando Lo vedremo faccia a faccia (1° Corinzi 13:12), è ovvio che solo un cuore ammaestrabile, un cuore disposto a mettersi costantemente in discussione, un cuore mai sazio di verità, sarà il terreno sul quale questa rivelazione potrà fare radice. Dico questo perché nel cammino che facciamo con il Signore siamo continuamente sfidati a ricordare a noi stessi che il nostro profetizzare è ancora parziale e direttamente proporzionale alla nostra conoscenza di Gesù (1° Cor 13:9).
Se l’esperienza di Israele nel deserto è lo specchio del cammino spirituale della chiesa come nuova Israele, allora comprendiamo quante scoperte, quanti cambiamenti ed eventualmente quante soste di ripensamento possiamo avere. Ma se la nostra sicurezza è basata sulla certezza della colonna di fuoco e della nube di gloria piuttosto che sulle nostre tradizioni (aglio, cipolle, quaglie, manna, ecc.), allora possiamo procedere fiduciosi.
In famiglia
Con questo spirito di ricerca proponiamo a noi stessi nuovi stimoli di discussione e dibattito su questioni basilari della nostra fede. Mossi alcune volte più da intuizioni che da definizioni, amiamo confrontarci per quanto possibile liberi da preconcetti culturali e teologici di qualsiasi tipo. Crediamo fermamente che la multiforme sapienza di Dio (Efesini 3:10) si manifesta in tutta la Sua chiesa universale e nessuna denominazione particolare la può contenere in modo totale.
Personalmente ritengo pericoloso non tenere conto della molteplicità delle tante posizioni dottrinali che troviamo nel grande mare cristiano. Mi chiedo (e spero di non peccare di utopia!) se non sarà mai possibile entrare nella mentalità per la quale posso considerare le posizioni diverse dalla mia come contenenti una parte di verità degna di studio e attenzione. D’altra parte né la Scrittura può essere letta in modo asettico quasi che il contesto nel quale sono posti gli eventi non abbia implicazioni più estese della pura lettura, né lo studioso è estraneo all’ambiente storico-culturale nel quale è avvenuta la sua formazione. Così dunque le varie scuole di ermeneutica sono esposte ai condizionamenti derivanti dal venire insieme di molteplici fattori. Non è infatti un particolare modo di interpretare la Scrittura a essere ispirato, ma è la Parola di Dio stessa.
Con questa premessa proponiamo all’attenzione dei lettori alcune considerazioni sulla Santa Cena. Partendo dalla confessione di averla vissuta talvolta in modo iperreattivo all’insegnamento cattolico della transustanziazione (la trasformazione della sostanza del pane e del vino in carne e sangue), abbiamo la sensazione che la riduzione alla sola celebrazione del memoriale della Sua morte, l’abbia depauperata della ricchezza e della spiritualità che sono proprie di questo gesto che Gesù ci ha ordinato di ripetere fino al suo ritorno.
La cena che Gesù ha consumato il giovedì santo con i suoi discepoli, è stata l’ultima di una serie di cene vissute con loro. Era chiaramente la cena pasquale nella quale Gesù ha svolto il ruolo del padre di famiglia, che ogni famiglia israelitica doveva seguire secondo il modello tratto da Esodo capitoli 12 e 13. Il rendimento di grazie (che in greco si dice eucharistia) era riservato al capo famiglia, ruolo che Gesù assume ogni qualvolta recita la preghiera di ringraziamento e spezza il pane (Marco 6:41, 8:6, 14:22-24). Mangiare con Gesù assume il significato di entrare a far parte della sua famiglia che non è più quella carnale, ma è costituita da chi ascolta la sua parola e fa la volontà del Padre diventando così e madre e fratelli di Lui (Matteo 12:50, Marco 3:34, Luca 8:21).
Parlando del Suo sangue che viene versato, Gesù usa l’espressione cultuale “sangue del patto” (Matteo 26:27) che è la stessa di Esodo 24:8: “Mosè prese quindi il sangue, ne asperse il popolo e disse: “Ecco il sangue del patto …”“ Quest’ultima espressione introduce per implicazione un profondo discorso di appartenenza a una nazione e a una famiglia con le relazioni verticali (con il re o il padre) ed orizzontali (con i connazionali o i fratelli) che le caratterizzano. Se interpretiamo questo all’interno del rapporto chiesa-Cristo e quindi sposo-sposa, non faticheremo a vederne la similitudine con il contratto matrimoniale. Nella concezione biblica questo è un patto indissolubile e la sua violazione viene definita adulterio. Il legame di famiglia viene sottoscritto ogni volta che noi rompiamo il pane e beviamo il calice, secondo le parole: “Questo è il mio corpo che è dato per voi … questo calice è il nuovo patto nel mio sangue … ora voi siete il corpo di Cristo …” (1° Corinzi 11:24-25, 12:27).
La comunità di Gerusalemme, che aveva profondamente incarnato questo principio per cui “la moltitudine di quelli che avevano creduto era d’un sol cuore e di un’anima sola” (Atti 4:32), ha continuato questa abitudine raccogliendosi ogni giorno per mangiare insieme (Atti 2:46, 6:21) secondo l’ordine dato da Gesù: “Fate questo in memoria di me”, quasi come se fosse un’anticipazione del pasto che la nuova famiglia costituita da tutti redenti farà ancora con Lui nel regno del Padre (Matteo 26:29). Con questa prospettiva escatologica la chiesa dunque ripete la Santa Cena in vista della cena più gloriosa che si farà il giorno della nozze fra l’Agnello e la Sua sposa (Apocalisse 19:9).
Le nostre radici
Come deve essere vissuto dunque questo momento così significativo per la comunità cristiana? È semplicemente un gesto di rammemorazione di un fatto avvenuto duemila anni or sono, oppure c’è qualcosa che continua a benedire chi vi partecipa? Lo spezzare il pane e la partecipazione al calice è solo un gesto simbolico, oppure ci appropriamo di qualche beneficio spirituale insito nella sostanza delle due specie?
La lettura che facciamo in 1° Corinzi 10:16 recita: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse la partecipazione con il sangue di Cristo? Il pane che noi rompiamo, non è forse partecipazione con il corpo di Cristo?” Cosa significa questa Scrittura, e cosa ha rappresentato per i cristiani nella successive epoche storiche?
Ignazio vescovo di Antiochia, uno dei Padri della chiesa martirizzato intorno l’anno 107 d.C., quasi contemporaneo quindi di Giovanni, scrive in una lettera inviata alla chiesa di Filadelfia:
“Preoccupatevi di attendere ad una sola eucarestia. Una è la carne del nostro Signore Gesù Cristo e uno è il calice nell’unità del Suo sangue, uno è l’altare come uno solo il vescovo con il presbiterio e i diaconi miei conservi. Se ciò farete, lo farete secondo Dio”.
E ancora Giustino, scrittore cristiano che ha subìto il martirio verso il 160 d.C., scrivendo in difesa del cristianesimo un’apologia indirizzata all’imperatore romano Antonino Pio e volendone spiegare dottrine e riti afferma:
“… Poi al preposto dei fratelli vengono portati un pane e una coppa d’acqua e di vino temperato; egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell’universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie per essere stati fatti degni da Lui di questi doni. Quando egli ha terminato le preghiere ed il rendimento di grazie, tutto il popolo presente acclama: ‘Amen’ che in lingua ebraica significa ‘sia’. Dopo che il preposto ha fatto il rendimento di grazie e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane, il vino e l’acqua su cui è stata compiuta l’azione di grazie e ne portano agli assenti. Questo cibo è chiamato da noi Eucarestia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione (il battesimo, n.d.s.), e vive così come Cristo ha insegnato. Infatti noi li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento … è carne e sangue di quel Gesù incarnato. Infatti gli Apostoli, nelle loro memorie chiamate vangeli, tramandarono che fu loro lasciato questo comando da Gesù, il quale prese il pane e rese grazie dicendo ‘Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo’. E parimenti, preso il calice e rese grazie disse: ‘Questo è il mio sangue’; e ne distribuì soltanto a loro” (Prima apologia LXV, LXVI).
Dunque nella chiesa contemporanea o immediatamente successiva agli Atti degli Apostoli il problema teologico e liturgico intorno alla Santa Cena si era già posto ed è innegabile quanto il testo che abbiamo appena citato sia prezioso per ogni ricerca che possiamo fare.
I Riformatori
Anche i Padri della Riforma hanno dovuto ridefinire i termini della cena del Signore purificandola dagli aspetti più pesantemente idolatrici che nel frattempo vi si erano sovrapposti. Lutero nel suo Grande Catechismo afferma che per gli elementi della Cena la cosa essenziale è la Parola di Dio, l’ordine di Dio:
“… è in virtù della Parola che non restano semplicemente pane e vino ma sono realmente corpo e sangue di Cristo”,
e che senza la Parola,
“non c’è altro che pane e vino, ma se essa vi è congiunta, come deve essere, siamo realmente, in senso proprio del termine, in presenza del corpo e sangue di Cristo”.
Questi sono: “dato per noi” (in Paolo e Luca), “versato per molti” (Matteo e Marco) e “per la vita del mondo” (Giovanni). Siamo quindi, nella concezione luterana, in presenza della grazia divina. La definizione data alla Cena è che l’eucarestia come sacramento “è il vero corpo e vero sangue del Signore Gesù Cristo che la Parola di Cristo ordina a noi credenti di mangiare e bere nel e sotto il pane ed il vino”.
Quindi il pane e il vino non parlano solo di un significato spirituale che va al di là di ciò che sono realmente, ma diventano lo strumento attraverso cui si comunica la remissione dei peccati: “Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per la remissione dei peccati” (Matteo 26:27-28). Lutero afferma che:
“noi prendiamo parte alla Santa Cena per ottenere il tesoro mediante il quale e nel quale riceviamo la remissione dei peccati”.
E nell’ordine di mangiare e bere sembra esserci implicato il fatto di vedere l’eucarestia come “nutrimento dell’anima, che nutre e fortifica l’uomo nuovo”. Gesù disse: “Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo … Poiché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, e io in lui” (Giovanni 6:51,55-56).
Lutero però specifica bene che:
“… non il pane e il vino in sé, ma un pane ed un vino che sono il corpo ed il sangue di Cristo ed a cui è stata congiunta la Parola di Cristo. Quel pane è il tesoro mediante il quale ci è procurata la remissione dei peccati … Le parole ‘dato’ e ‘sparso per voi’ ci dicono che il pane ed il vino sono il corpo ed il sangue di Cristo e che quel tesoro è nostro come un regalo che riceviamo … Chi afferma che non è nella Santa Cena che il corpo di Cristo è dato ed il suo sangue versato per noi, e che non possiamo ricevere in questo sacramento la remissione dei peccati, dice il falso”.
Il riformatore insiste particolarmente sulla presenza reale di Cristo negli elementi, sostenendo però che l’azione della Parola non è dissociata dalla fede del credente. La Parola non agisce in modo magico o automatico, ma la fede viene già richiesta quando Cristo dice “dato per voi” e “sparso per voi”, per cui la remissione dei peccati non può essere ricevuta che per fede. Lutero continua nel suo catechismo dicendo:
“Colui che si attiene a queste parole e crede che sono vere ottiene ciò che esprimono. Colui che non crede non riceve nulla”.
È interessante che anche all’epoca della riforma nacque fra i suoi protagonisti un interessante confronto teologico che assunse spesso toni molto aspri. La scuola luterana proponeva un’interpretazione diversa sia da quella di Zwingli, il riformatore di Zurigo, per il quale gli elementi erano essenzialmente simbolici, sia da quella di Calvino, il grande riformatore di Ginevra, del quale vogliamo riportare alcune osservazioni prese dal suo Piccolo trattato sulla S. Cena del nostro Signore Gesù Cristo.
Calvino scrive:
“La vita in vista della quale ci ha rigenerati è spirituale, di conseguenza anche gli elementi necessari per la nostra sussistenza e la nostra crescita in essa devono essere spirituali … Ora la Scrittura tutta ci ricorda che il cibo spirituale di cui le nostre anime sono nutrite è la Parola stessa mediante la quale il Signore ci ha rigenerati e ne precisa anche il motivo: è nella Parola che Gesù Cristo, la nostra unica vita, ci viene dato e comunicato … Gesù Cristo è dunque l’unico nutrimento delle nostre anime. In considerazione del fatto che Egli ci viene dato nella Parola del Signore, da lui scelta come strumento a questo scopo, detta Parola ci è presentata anche come ‘pane e acqua’ (Giovanni 4:7-14, 6:51). Ciò che viene detto della Parola si applica altresì al sacramento della Cena di cui il Signore si serve per realizzare questa comunicazione di Gesù Cristo … L’affermare che abbiamo comunicazione al sangue e al corpo di Gesù Cristo significa enunciare un mistero così profondo e difficile da comprendere e da esprimere e, d’altra parte, siamo così poco preparati a comprendere anche le cose più elementari di Dio, che egli non ha potuto far altro che adeguarsi alle nostre capacità per farsi intendere da noi …
“Se ci si chiede: il pane è il corpo di Cristo e il vino il suo sangue? Risponderei in questi termini: il pane e il vino sono i segni visibili che rappresentano il corpo e il sangue, ma essendo anche gli strumenti mediante i quali il Signore Gesù ce li distribuisce, ne assumono il nome … segni tuttavia che non sono semplici raffigurazioni, ma che si connettono con la verità e la sostanza di questo mistero. A ragione dunque il pane è detto corpo perché, non solo ne è raffigurazione, ma anche strumento di comunicazione. Non abbiamo dunque nessuna difficoltà ad ammettere che il termine ‘corpo di Cristo’ sia riferito al pane … Se dunque nella Cena il Signore ci annuncia visivamente la comunione con il corpo e il sangue di Gesù Cristo, quello che riceviamo è veramente il corpo e sangue di Cristo”.
Concludendo il suo trattato e paragonando le diverse posizioni dei riformati, Calvino scrive ancora:
“Tutti riconosciamo dunque che quanti riceviamo il sacramento nella fede, secondo le indicazioni del Signore, siamo resi partecipi della sostanza del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Come questo avvenga è da alcuni più chiaramente percepito ed illustrato che da altri. In sintesi possiamo dire che dobbiamo evitare ogni interpretazione carnale e perciò innalzare i nostri cuori verso il cielo e non pensare che il Signore Gesù sia degradato al punto da essere rinchiuso in elementi corruttibili. D’altra parte non si deve sminuire l’efficacia di questo mistero ed occorre perciò pensare che questo avviene per opera segreta e misteriosa di Dio stesso e che il suo Spirito costituisce il mezzo che rende possibile questa partecipazione, che definiamo perciò spirituale”.
Oggi in molta parte della chiesa si avverte la necessità di recuperare la pienezza della realtà spirituale e del senso di sacro dei simboli e dei gesti del servizio divino. Sembra stia passando di moda quell’informalità e casualità che parte del movimento carismatico ha vissuto nella sua fase adolescenziale, reagendo ai rigori di liturgie troppo statiche. D’altra parte, le numerose guarigioni avvenute durante la distribuzione della Santa Cena sono esperienza comune. La fede è sicuramente la chiave di accesso alla porta di tutti i tesori spirituali, alcuni dei quali rivelati, altri ancora da riscoprire.