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di Geoffrey Allen
“Ricordati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant’anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provar la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso, e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge suo figlio, così il Signore, il tuo Dio, corregge te.” (Deuteronomio 8:2-5).
L’esperienza del deserto segnava un passaggio fondamentale per la nazione d’Israele. Uscì dall’Egitto una massa di ex-schiavi ribelli; entrò nella terra di Canaan una nazione unita e disciplinata. Non poterono passare direttamente dal Mar Rosso nella terra promessa, e neanche dal Monte Sinai: in mezzo c’era il deserto. Certo, non era l’intenzione di Dio che vi passassero quarant’anni; ma dovevano comunque passarci. Non c’era altra via per entrare nella terra delle benedizioni e delle promesse di Dio.
Se, come scrive Paolo, “queste cose avvennero per servire da esempio a noi … e sono state scritte per ammonirci” (1° Cor. 10:6,11), dobbiamo concludere che ci sia qui una lezione per noi, un’immagine del cammino spirituale del cristiano. E infatti, attraverso i secoli, è esperienza comune dei credenti che, per arrivare alla maturità e alla pienezza di Dio intende per la nostra vita, è obbligatorio il passaggio attraverso il deserto.
I maestri della vita spirituale hanno usato diverse immagini per descrivere questa esperienza: una delle più note è quella di S. Giovanni della Croce, che ha parlato della “notte oscura dell’anima”: cioè l’esperienza in cui Dio sembra nascondersi, allontanarsi, non ci consola e ci benedice come prima, in cui sembra che sia diventato insensibile al nostro grido di disperazione. Ma questo serve per la nostra crescita e maturazione. Come insegnava Paolo ai suoi discepoli, “dobbiamo entrare nel Regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (Atti 14:22).
Volare come aquile
In un celebre sermone, ripetuto a furor di popolo varie volte durante gli ultimi anni del suo ministero, il predicatore canadese Ern Baxter prende l’aquila a simbolo della vita cristiana vittoriosa: “Quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile …” (Is. 40:31).
Ma ogni aquila era una volta un piccolo aquilotto, comodamente sistemato in un nido sulla cima di un’alta montagna: l’aquila, infatti, nidifica più in alto di qualunque altro uccello (cfr. Giob. 39:27). La vita è meravigliosa: dalla mattina alla sera mamma aquila porta cose squisite da mangiare, e di notte ripara i suoi piccoli sotto le sue ali calde e protettive. Che bella, questa vita cristiana! Niente più problemi, solo benedizioni! Dio pensa a tutto per noi!
Ma c’è un altro brano della Scrittura che parla dell’aquila: “Come un’aquila che desta la sua nidiata, svolazza sopra i suoi piccini, spiega le sue ali, li prende e li porta sulle penne …” (Deut. 32:11). Un giorno, infatti, la mamma comincia a comportarsi in modo molto strano. Invece di posarsi sul nido, si libra in volo sopra di esso; poi ne afferra un pezzo e lo butta già dalla rupe. Ancora, e ancora; poi afferra uno dei suoi piccini e … butta giù anche lui! Ma, proprio nel momento in cui sta per schiantarsi sulle rocce, lo prende e lo riporta in salvo. Poi lo fa ancora!
Perché si comporta così? Sta insegnando all’aquilotto a volare con le proprie ali. Fino a che stiamo comodi nel nido e Dio pensa a tutto per noi, fino a quando non dobbiamo affrontare sofferenze e pericoli e imparare a volare da soli, non matureremo mai. È il Signore stesso, quando viene il momento, a buttarci fuori dal nido. Non è il diavolo: lui non ci può toccare senza l’esplicito permesso di Dio (1° Gv. 5:18, Lc. 22:31). Quando vengono problemi e tribolazioni, quando Dio sembra insensibile al nostro grido, è perché Egli ci tiene più al nostro carattere che non alla nostra comodità. Vuole “sapere quello che abbiamo nel cuore e se osserveremo o no i suoi comandamenti”, anche quando non c’è tornaconto.
Dio consentì a Satana di scagliarsi contro il Suo servo Giobbe, di togliergli non solo la ricchezza ma anche la famiglia e la salute, per dimostrare che egli amava e serviva Dio non per i benefici ricevuti, ma per amore della Sua Persona e della Sua giustizia (Giob. capp. 1-2). E noi, serviremo Dio solo quando c’è convenienza a farlo? Dio vuole vedere cosa c’è anche nel nostro cuore, e come fece allora con Giobbe, vuole oggi dimostrare ai principati e alle potestà nei luoghi celesti che c’è un popolo che lo ama anche se dovesse soffrire la perdita di tutto per farlo (cf. Ef. 3:10).
Comodità o carattere?
Molti, oggi, predicano un cristianesimo fatto solo di benedizioni, di comodità, di vantaggi spirituali e materiali. Certo, il Vangelo è messaggio di grazia, cioè di beni gratuitamente dati a chi non se li merita. Ma dopo la liberazione dall’Egitto, c’è un cammino da fare: Dio vuole vedere cosa abbiamo nel cuore! Gli Israeliti della prima generazione fallirono la prova: vollero restare sempre bambini, si lamentavano appena mancavano le benedizioni e le comodità (nonostante Dio continuasse a mandare ogni giorno per quarant’anni la manna!), e alla fine il Signore si disgustò di quella generazione, che non poté entrare nella Terra Promessa (Sal. 95:10-11).
Anche Gesù, subito dopo il Suo battesimo nel Giordano e dopo che lo Spirito Santo era sceso su di lui, dovette passare quaranta giorni nel deserto. Anzi, perché nessuno pensi che questo fosse un attacco contro di Lui da parte di Satana, la Scrittura afferma esplicitamente che “fu condotto dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni, dove era tentato dal diavolo” (Lc. 4:1). Solo dopo questa esperienza di prova – prova superata con il massimo dei voti! – leggiamo che “Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea” (v.14). La manifestazione della potenza di Dio richiede non solo l’unzione dello Spirito, ma anche il passaggio attraverso il deserto e il fuoco della tentazione.
Infatti, un’attenta lettura della Bibbia dimostra che praticamente tutti gli uomini di cui Dio si è servito con maggiore potenza sono passati attraverso il deserto, alcuni nel senso più letterale, altri in senso spirituale. Vediamone l’elenco:
- Abramo dovette lasciare il suo paese, i suoi parenti e i suoi beni per andare in un luogo a lui sconosciuto, dove passò il resto della vita “soggiornando nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende” (Ebr. 11:8).
- Giuseppe, chiamato da Dio giovanissimo, fu tradito e venduto schiavo dai suoi stessi fratelli, accusato falsamente e imprigionato per un delitto che non aveva commesso, e dimenticato dall’amico che aveva aiutato là e che aveva promesso di ricambiare il favore. Alla fine però divenne non solo viceré d’Egitto, ma anche il mezzo della salvezza di tutta la sua famiglia e dell’avanzamento del piano di Dio per tutte le età.
- Mosè, incompreso nei suoi tentativi “carnali” di aiutare il popolo di Dio, dovette fuggire in esilio nel deserto dove passò quarant’anni a stare dietro alle pecore del suocero. Ma fu proprio questa esperienza a fare di quel giovane arrogante e frettoloso “un uomo molto umile, più di ogni altro uomo sulla faccia della terra” (Num. 12:3).
- Davide, dopo lo strepitoso successo contro Goliath e la straordinaria popolarità conquistata giovanissimo, dovette fuggire nel deserto dalla gelosia di Saul, fingendosi addirittura pazzo, dove divenne il capo di un’”armata Brancaleone” formata da “tutti quelli che erano in difficoltà, che avevano debiti o che erano scontenti …” (1° Sam. 22:2). Solo dopo anni di difficoltà e di delusioni venne per lui il momento del successo e della gloria.
- Elia, dopo il trionfo sui profeti di Baal, fu colto da una crisi depressiva così forte che pregò perfino di morire. Solo dopo un lungo viaggio attraverso il deserto, sostenuto da un cibo e da un’acqua soprannaturali, ricevette quella nuova rivelazione di Dio che gli consentì di portare a compimento gli scopi per i quali Dio lo aveva chiamato (1° Re 19).
- Giovanni Battista “stette nei deserti fino al giorno in cui doveva manifestarsi a Israele”; e anche allora “la parola di Dio [gli] fu diretta … nel deserto” (Lc. 1:80,3:2).
- Anche Paolo, dopo la sua sconvolgente conversione e la chiamata a portare la Parola di Dio ai Gentili, racconta: “Non salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me, ma me ne andai subito in Arabia” (Gal. 1:17).
- L’apostolo Giovanni, infine, ricevette quella rivelazione delle cose future che chiamiamo “Apocalisse” nel luogo deserto dell’esilio sull’isola di Patmos.
E noi, invece, pensiamo di farne a meno e di arrivare alla pienezza della spiritualità stando comodi nelle nostre case, nei nostri locali di culto, cercando solo le benedizioni e le esperienze emozionanti e rifuggendo da ogni esperienza di dolore, di prova e di difficoltà, attribuendole tutte all’ostilità del diavolo?
Dio vuole introdurre anche noi, come gli Israeliti antichi, in un paese di grandi benedizioni, e insieme di grandi conflitti. Ma per arrivarci, è obbligatorio il passaggio attraverso il deserto, perché anche nel nostro caso, Egli vuole “metterci alla prova, per sapere quello che abbiamo nel cuore e se osserveremo o no i suoi comandamenti”. Non dobbiamo meravigliarci, allora, se ci “fa provare la fame … poi ci nutre, per insegnarci”, e se “come un uomo corregge suo figlio, così il Signore, il tuo Dio, corregge noi”. È l’unica strada per arrivare alla maturità di figli di Dio.