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di Geoffrey Allen
La parola “discepolo” è usata moltissime volte nel Nuovo Testamento. Infatti, prima ancora di essere nominati “cristiani”, i seguaci di Gesù furono chiamati “discepoli”: “ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani” (Atti 11:26).
Ma il discepolato non ebbe inizio con Gesù. Un discepolo è un allievo, studente o apprendista: è uno che va a stare vicino ad un “maestro” riconosciuto per impadronirsi di un certo ramo di conoscenza o di abilità. (Infatti, la parola tradotta “discepolo” nella nostre Bibbie, mathetes, deriva direttamente dal verbo manthanein, “imparare”.)
Come gli apprendisti di un tempo nella nostra società, i discepoli andavano solitamente a vivere a casa del “maestro”, e lo servivano anche nei lavori più umili, così come oggi un apprendista meccanico comincia scopando l’officina e porgendo le chiavi al “padrone”. È questa la posizione descritta dall’apostolo Paolo quando dice di essere stato “educato ai piedi di Gamaliele”, cioè del più famoso e rispettato maestro della Legge dei suoi tempi (Atti 22:3, cfr. 5:34).
Nell’Antico Testamento
Il discepolato ha profonde radici nell’Antico Testamento. Mosè, per esempio, ebbe la previdenza di scegliere e di formare il suo successore, Giosuè. Quando poi Dio gli disse che non gli sarebbe consentito di condurre Israele nella terra promessa, poté comunque stare tranquillo, sapendo di avere nel suo discepolo un degno successore.
Incontriamo per la prima volta Giosuè in Esodo 17, quando Mosè gli affida il comando dell’esercito israelita nella battaglia contro Amalek. Evidentemente non era un ragazzino! Tuttavia, dopo di questo, egli diventa il “ministro” o “servo” di Mosè (Es. 24:13), e da allora in poi lo accompagna dovunque vada. Lo troviamo con Mosè sul monte Sinai (24:13), ai suoi colloqui personali con Dio alla “tenda di convegno” (Es. 33:11), e quando pronuncia la benedizione profetica sul popolo (Deut. 32:44). A un certo punto, viene reso partecipe della stessa autorità di Mosè (Num. 27:18-23), e alla fine, è stabilito come suo successore: “e Giosuè, figlio di Nun, fu riempito dello spirito di sapienza, perché Mosè gli aveva imposto le mani; e i figli d’Israele gli ubbidirono” (Deut. 34:9). Alla fine, il “discepolo perfetto” era diventato come il suo maestro (cfr. Lc. 6:40).
Un altro noto esempio di discepolato nell’Antico Testamento è quello di Elia con Eliseo. Dopo la sua fuga nel deserto, Elia riceve da Dio, tra l’altro, l’ordine di ungere Eliseo “come profeta in luogo tuo” (2° Re 19:16); ed è la prima cosa che fa. Ma ad Eliseo non bastò la chiamata e l’unzione divina: “si levò, seguì Elia, e si mise al suo servizio” (v. 21). Abbandona i genitori e una vita agiata (si vede che la sua era una famiglia benestante dal fatto che il paio di buoi con cui arava era l’ultimo di dodici paia, guidate presumibilmente dagli operai di suo padre), per diventare semplicemente “colui che versava l’acqua sulle mani di Elia” (2° Re 3:11).
Eliseo serve un lungo apprendistato con Elia, e solo dopo la scomparsa di lui diventa, secondo la chiamata di Dio, profeta al suo luogo e possessore della “doppia porzione del suo spirito” (cioè, la porzione del primogenito, del legittimo erede – cfr. Deut. 21:17), che gli consente di operare gli stessi miracoli del suo maestro.
Possiamo solo speculare quali non potevano essere le conseguenze per la storia di Israele se Eliseo, a sua volta, avesse trovato per servo e discepolo un erede degno di lui. Invece trova solo un Ghehazi, uno che, come Balaam, reputò la chiamata e i poteri profetici fonte di guadagno … e fini colpito dalla lebbra (2° Re 5:20-27).
A dire il vero, anche Abramo – “padre di tutti quelli che credono” (Rom. 4:11) – è un esempio del discepolato. In Genesi 18:19, Dio spiega la ragione per cui ha scelto Abramo per essere il capostipite della “famiglia della fede”: “Io l’ho prescelto affinché ordini ai suoi figli, e dopo di sé alla sua casa, che si attengano alla via dell’Eterno per praticare la giustizia e l’equità, onde l’Eterno ponga ad effetto a pro d’Abramo quello che gli ha promesso”. Dio scelse Abramo perché vide in lui un uomo capace di discepolare i propri figli e di trasmettere loro ciò che Egli gli aveva affidato. Altrimenti il piano di Dio sarebbe andato in fallimento!
L’esempio di Gesù
È noto a tutti il principio adottato da Gesù per compiere la sua missione. Egli operò sì in mezzo alle folle, ma “non si fidava di loro, perché conosceva … quello che era nell’uomo” (Giov. 2:24-25). Piuttosto scelse dodici uomini “per tenerli con sé e per mandarli a predicare …” (Mc. 3:14-15). A questi dodici dedica il meglio del suo tempo, delle sue energie e delle sue preghiere, perché dopo la sua partenza, potessero portare avanti la stessa sua missione, e anzi estenderla “fino alle estremità della terra”.
A questi discepoli Gesù, dopo la resurrezione, dà il seguente ordine: “Andate … fate diventare miei discepoli gli uomini di tutte le nazioni … insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate” (Matt. 28:19-20). La parola qui tradotta “fate diventare miei discepoli” (nella Riveduta, “ammaestrate”) è matheteusate, dallo stesso radice di mathetes, “discepolo”.
Gesù dunque dà ordini ai suoi discepoli di discepolare a loro volta altri che, moltiplicandosi, portino il Suo messaggio in “tutte le nazioni” e “fino alle estremità della terra” (Atti 1:8), compito ovviamente troppo grande per dodici uomini da soli! E notiamo in che modo potrà essere compiuto questo “Grande mandato”: “insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate”. Non dunque “insegnando” soltanto una conoscenza teorica della Parola di Dio, ma “insegnando loro a mettere in pratica” quanto veniva insegnato, attraverso l’istruzione, l’applicazione concreta, la correzione e la disciplina – in una parola, il discepolato!
Nella Chiesa primitiva
I discepoli non vennero meno al compito, nonostante le difficoltà provocate dal grande afflusso di nuovi convertiti nella chiesa il giorno di Pentecoste e dopo. Gli apostoli non si limitarono ad istruire i nuovi credenti da un pulpito, ma “tutti quelli che credevano stavano insieme … e ogni giorni andavano assidui e concordi al tempio, rompendo il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme …” (Atti 2:44-46).
Lo stesso metodo è seguito più tardi da Paolo nella sua opera missionaria. Egli così descrive i metodi usati durante il soggiorno di due anni a Efeso: “Voi sapete in quale maniera io mi sono sempre comportato con voi … come non vi ho nascosto nessuna delle cose che vi erano utili, e ve le ho annunziate e insegnate in pubblico e nelle vostre case” (Atti 20:18-20).
Egli dunque non si era limitato ad un’istruzione teorica nella Parola di Dio, ma entrava nelle case dei credenti – e particolarmente degli anziani della chiesa, ai quali rivolge questo discorso – per “insegnare loro a mettere in pratica” le cose ordinate da Gesù.
Ma ancora di più gli apostoli, depositari dell’eredità spirituale del Maestro, si preoccuparono di formare particolarmente degli uomini che diventassero loro eredi e successori. L’esempio più noto è quello di Paolo con Timoteo. Ma egli parla anche di Tito come un suo “figlio” spirituale (Tito 1:4), e c’è tutta una schiera di altri collaboratori che viaggiavano con lui e diventarono poi suoi eredi spirituali: Tichico, Epafra, Luca (Col. 4:7,12,14); Epafrodito (Fil. 2:25); Sopatro, Aristarco, Trofimo e altri (Atti 20:4).
Anche Barnaba, e più tardi Pietro, formarono come loro “apprendista” Marco, l’autore del secondo Vangelo (Atti 13:5, 15:37; 1° Pt. 5:13); e Giovanni scrive a Gaio chiamandolo suo “figlio” spirituale (3° Giov. 41-4).
Paolo e Timoteo
È però dalla relazione tra Paolo e Timoteo che vediamo più chiaramente come funzionava il discepolato nella prima generazione della Chiesa. Timoteo era ancora giovanissimo quando fu raccomandato a Paolo dai fratelli della sua chiesa di origine, Listra (Atti 16:1-2). Non sembra esserci stata in questa fase una “chiamata” particolare per Timoteo da parte di Dio: è scritto semplicemente che “Paolo volle che partisse con lui” (v.3), come prima è scritto che Paolo e Barnaba, inviati dallo Spirito Santo, “avevano con loro Giovanni (Marco) come aiutante” (13:5).
Timoteo dunque viene “formato” da Paolo, svolge il suo apprendistato, gli vengono affidati compiti di sempre maggiore responsabilità (1° Tess. 3:2, 1° Cor. 16:10, Fil. 2:19, 1° Tim. 1:3), ed è a lui che Paolo, prima di morire, indirizza l’ultima sua lettera chiamandolo “mio caro figlio” (2° Tim. 1:2) e affidandogli il proseguimento della propria opera.
È in questa lettera a Timoteo che Paolo espone la sua strategia per il futuro della Chiesa: “Le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, affidale a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri” (2:2).
Si parla qui addirittura di quattro “generazioni” spirituali. Paolo (1) aveva impartito tutto il suo patrimonio spirituale a Timoteo (2), non solo con le parole, ma con l’esempio: “hai seguito da vicino il mio insegnamento, la mia condotta, i miei propositi, la mia fede, la mia pazienza, il mio amore, la mia costanza … Persevera nelle cose che hai imparate, sapendo da chi le hai imparate” (3:10,14). Timoteo a sua volta le deve “affidare a uomini fedeli” (la 3a generazione), che dovranno essere appunto fedeli per poterle custodire inalterate e affidarle a loro volta alla generazione successiva (la 4a).
Il futuro della chiesa
È chiaro, dunque, che il discepolato non solo è biblico, ma deve essere anche oggi una strategia fondamentale per la Chiesa. Se riteniamo che il cristianesimo sia “vita” e non solo “dottrina”, l’insegnamento impartito dal pulpito, negli studi biblici, nei seminari e nelle scuole bibliche non potrà mai bastare per formare i credenti e i futuri conduttori delle chiese. Il metodo di Gesù deve essere anche il nostro metodo.
Abbiamo bisogno di impartire alla prossima generazione nel contesto della vita, e non di un’aula scolastica, tutto quello che abbiamo imparato della vita nello Spirito, “insegnando loro a osservare tutte quante le cose che Gesù ci ha comandate”.
Geoffrey Allen è un insegnante della Parola di Dio e fa parte della squadra apostolica che ha sede a Caserta. Inglese di origine, esercita il suo ministero in Italia dal 1971. È sposato e padre di se figli. I suoi hobby comprendono la lettura, la musica, la natura, l’informatica e il fai-da-te.