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di Giovanni Traettino
“L’uomo che non si sa padroneggiare è una città smantellata” (Proverbi 25:28 Riv.).
“Chi padroneggia se stesso vale più di chi espugna città” (Proverbi 16:32 Riv.).
“Ogni disciplina sembra, è vero, per il presente non essere causa di allegrezza, ma di tristezza; però rende poi un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati per essa esercitati” (Ebrei 12:11 Riv).
“Padri, allevate i vostri figli nella disciplina e nell’istruzione del Signore” (Efesini 6:4).
Disciplina e paternità
Qualsiasi discorso sulla disciplina cristiana rischia di portarci a conclusioni sbilanciate o addirittura fuori strada se non partiamo da un presupposto fondamentale per il Nuovo Testamento: la natura paterna della disciplina cristiana.
Il Dio di Abrahamo, a causa della nostra identificazione per grazia mediante la fede con Cristo Gesù, ci ha amati e ci ha accolti come suoi veri figli (gr. paides). Ed è verso di noi, divenuti in Cristo suoi figli, che come vero Padre egli esercita la Sua disciplina (gr. paideia) paterna. Questa paideia è il processo di formazione e di educazione personale governato dal Padre che, attraverso interventi di guida e di istruzione, di esortazione e di ammonizione, di correzione e di consolazione (agenti lo Spirito Santo, la Parola, i ministeri e le circostanze) ha come fine:
- il perfezionamentodel figlio (Efesini 4:12), con il raggiungimento della piena maturità umana e la sua trasformazione a immagine e somiglianza del Figlio Gesù, Egli stesso immagine del Padre;
- lo sviluppo vocazionaledelle attitudini e delle abilità del figlio, di modo che sia adatto ad ogni opera buona preparatagli dal Padre (Efesini 2:10, 4:12; 2° Timoteo 2:15: servizio, ministero, opera);
- la costruzione di una mentalitàche lo spinga a vivere e a lavorare nella famiglia (la Chiesa), per l’unità e la crescita della stessa (Efesini 4:12-16).
Una disciplina relazionale
Questa paideia è profondamente relazionale e personale, fondata com’è sul rapporto Padre-figlio, piuttosto che su un rapporto con la Legge, con norme e valori impersonali. Le leggi, i comandamenti e i valori proposti acquistano la loro giusta collocazione quando li vediamo per quello che sono, la descrizione della natura e del carattere del Dio trinitario, e arriviamo ad essi attraverso il rapporto col cuore del Padre che viene rivelato attraverso la relazione con la signoria di Gesù nella nostra vita (la paideia attraverso il governo di Gesù).
D’altra parte Dio stesso, nello e con lo Spirito Santo, viene ad abitare in noi e, dito di Dio, ad incidere sulle tavole del nostro cuore il desiderio e la vita di Dio: “la nostra capacità viene da Dio” (2° Corinzi 3:5). In questo modo, per via dello Spirito Santo, l’amore di Dio Padre è “sparso nei nostri cuori” (Romani 5:5) e abbiamo “accesso” all’“abbondanza della grazia” (Romani 5:2,17), che si è manifestata, resa visibile e disponibile in Gesù Cristo. Questa “grazia [Gesù!] … ci insegna” a liberarci da ogni malvagità per poter vivere una vita saggia, pia e giusta (Tito 2:11-12).
Il fine della santità
Scopo dichiarato dell’azione salvifica di Dio è la formazione di “una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo … acquistato, perché proclamiate … le virtù di colui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1° Pietro 2:9). Ogni predicazione della “grazia” che non faccia avanzare questa prospettiva, che non introduca alla santità è, per dirla con Bonhoeffer, “a poco prezzo”. Come è scritto: “Oppure disprezzi le ricchezze della sua bontà, della sua pazienza e della sua costanza, non riconoscendo che la bontà di Dio ti spinge al ravvedimento?” (Romani 2:4).
Ogni teologia o spiritualità cristiana che non promuove questa prospettiva è viziata, e può legittimamente essere messa in discussione. Grazia e sequela vanno sempre insieme, sono “indispensabilmente legate” (Bonhoeffer). La grazia (che è la vita di Cristo) introduce a Cristo, alla presenza e alla potenza della sua vita per la via interna della conversione del cuore, per la via profonda della rottura e della sottomissione del proprio io, per la via umiliante della trasformazione e del rinnovamento della mente. Gesù stesso è il primogenito alla cui immagine siamo predestinati a conformarci (Romani 8:29). È “al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, ma con … la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo Gesù … il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Filippesi 3:9-14).
Il fine della testimonianza
In questa prospettiva acquista nuova luce il grande mandato: “Fate discepoli … insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:19-20).
Essere e fare discepoli in presenza di Gesù è il viatico finale e definitivo del Primogenito ai suoi fratelli; punto di partenza e “regola” fondamentale cui tornare ogni volta per la verifica del cammino, della teologia e della prassi personale e comunitaria della Chiesa. Cristo stesso, il Suo Corpo, è lo scopo della paideia di Dio.