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di Massimo Loda
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne dei forti …,
e bella e santa fanno al peregrin
la terra che le ricetta.
Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande …,
te beata, gridai, per le felici aure
pregne di vita …!
– Ugo Foscolo
(da “Dei sepolcri”)
Così si espresse il poeta Ugo Foscolo quando, circa duecento anni fa, andò a visitare la chiesa di Santa Croce in Firenze dove molti grandi dell’arte e della cultura italiana hanno il loro monumento sepolcrale.
Foscolo era un fervente patriota, sostenitore dell’unità d’Italia allora occupata in parte dagli stranieri e comunque frammentata in tanti piccoli stati. La visione delle tombe dei grandi rievocò in lui l’immagine di una nazione forte e piena di vita, che potenzialmente poteva essere infinitamente più grande di quello che in quel momento storico stava esprimendo. La visione dei monumenti alle glorie passate lo indusse a considerare quante ancora ne sarebbero potute venire: egli volle trarre ispirazione dai sepolcri perché il patrimonio di valori spirituali del passato fosse esempio per tutto il popolo.
Le tombe dei grandi esercitano una forte funzione civile ed educativa su un popolo, conservandone intatti i valori spirituali e contemporaneamente spingendo a nuove imprese seguendo l’esempio del passato. I sepolcri gli diedero un forte senso di appartenenza.
Le nostre radici
Il considerare le nostre radici è fondamentale per avere un’identità sicura. C’è saggezza nel detto popolare secondo il quale la storia è maestra di vita. Noi abbiamo una forte identità che deriva dall’appartenenza alla santa nazione di Dio, alla città eterna che Abramo e i profeti hanno sempre cercato. “Per fede [Abramo] soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende … perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio …Tutti costoro sono morti nella fede … confessando di essere forestieri e pellegrini sulla terra. Infatti, chi dice così dimostra di cercare una patria … ma Dio ha preparato loro una città” (Ebrei 11:9-16).
E la città preparata per i profeti è arrivata oggi a noi. “Voi vi siete invece avvicinati alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, alla festante riunione delle miriadi angeliche, all’assemblea dei primogeniti che sono scritti nei cieli” (Ebrei 12:22-23). È una città che c’è stata fin dalla fondazione del mondo, che oggi è presente come sale e come lievito nella nostra società, ma che deve ancora venire nella sua gloria: “E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini!»” (Apocalisse 21:2-3). Nel progetto di restaurazione della sua chiesa, il Signore ci dà la gioia di vivere al presente ricordandoci dello splendore del passato, in vista però di un futuro infinitamente più glorioso: “Infatti non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Ebrei 13:14).
Ricordare
La Scrittura è percorsa dal continuo invito divino a “ricordare”. I tempi della schiavitù in Egitto, il cammino fatto nel deserto con le provocazioni e le benedizioni, la rievocazione di eventi di grande presenza di Dio come la Pasqua, e tutte le altre feste davano ad Israele il senso di popolo consacrato per lo scopo di Dio; il senso di nazione particolare che il Signore si era appartata per i suoi propri scopi. Il ricordo delle meraviglie operate da Dio nel passato lasciava aperta la porta alla speranza per il futuro.
Mosè ordinò al popolo, non appena avesse passato il Giordano, di erigere grandi pietre intonacate di calce (Deuteronomio 27:5-8) e un altare di pietra come segno di testimonianza della potenza di Dio per le future generazioni (Giosuè 4:6,20-24). Nel Nuovo Testamento abbiamo chiara la richiesta di ricordare la morte del Signore celebrandola nell’eucaristia. Ci sono pietre miliari che caratterizzano il nostro cammino. Né noi come persone, né tantomeno le chiese di cui siamo parte deriviamo da un assoluto vuoto storico. Abbiamo le nostre radici sia nell’ebraismo che nel cristianesimo, pur quando deviato per molti aspetti. Ogni nuovo movimento deriva da quello precedente e quindi, volente o nolente, è portatore del codice genetico del padre.
È possibile che molti rami della chiesa siano stati tagliati – come successe per Israele – perché secchi o improduttivi; ma dobbiamo ricordare che non abbiamo nessun vanto perché non siamo noi a portare la radice, ma è la radice che porta noi (Romani 11:18). La chiesa di Dio non è ancora alla pienezza che il Signore richiede ed ha la necessità di avere il ricordo delle sue radici. Spesso ci riferiamo erroneamente alla chiesa di Gerusalemme come esempio finale di chiesa, ma Dio vuole molto di più. L’immagine della chiesa primitiva è per noi un ricordo di ciò che c’è stato ed è ancora possibile, ma contemporaneamente una sfida a superarne il modello.
Le tombe dei nostri padri
Quando Nehemia, rattristato per le condizioni di Gerusalemme, si presentò da re Artaserse, disse qualcosa di estremamente interessante: “Come potrei non essere triste quando la città dove sono le tombe dei miei padri è distrutta e le sue porte sono consumate dal fuoco?” (Nehemia 2:3). Nehemia non era interessato al culto dei morti, ma alla città della sua storia, alla città dei suoi ricordi, alla città di Dio. Spesso leggiamo nella scrittura: “… si addormentò e fu sepolto con i suoi padri”, perché c’è continuità fra il passato, il presente e il futuro della chiesa del Signore, che come ogni organismo vivente nasce, a un certo punto si riforma, per continuare a riformarsi per tutta la sua esistenza; anche la chiesa riformata è in continua riforma. Perciò in Gerusalemme i sepolcri dei padri non sono un ostacolo spirituale, ma un segnale che ci ricorda che qualcuno ha lavorato per noi per portarci alla situazione attuale.
Non possiamo dimenticare che il Nuovo Testamento ci è pervenuto nella forma che oggi conosciamo perché un sinodo di vescovi di quella che era ancora la chiesa indivisa – anche se già macchiata da errori dottrinali – ne ha definito il canone nel quarto secolo dopo Cristo. All’inizio la chiesa si era mossa con il Vecchio Testamento, con le lettere degli apostoli nelle chiese fondate da loro e con le lettere dei diversi vescovi locali, i cui scritti venivano talvolta considerati autorevoli quanto le Scritture. Ma lo Spirito Santo, sempre presente nella chiesa, condusse i vescovi a dare la definizione finale al canone che oggi accettiamo come da Lui ispirato. Di fatto, quindi, noi riconosciamo a quei vescovi – pur già in grossa misura “deviati” – l’autorità e l’unzione per la definizione finale di ciò che è Parola di Dio e ciò che non lo è. Così come dobbiamo a loro la difesa della purezza della dottrina quando l’arianesimo (antenato dei moderni testimoni di Geova) e altre strane e perverse dottrine sembravano avere preso il sopravvento in tutto il cristianesimo.
Noi abitiamo nella santa città di Dio dove hanno vissuto tutti questi padri che hanno preparato la nostra attuale vita spirituale, e alla nostra morte anche noi saremo uniti a loro dopo avere servito il consiglio di Dio nella nostra generazione (Atti 13:36). “Non siete più né stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare, sulla quale l’edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando …” (Efesini 2:19-21). Chiarito chi è la pietra angolare e stabiliti i fondamenti, la casa di Dio ha continuato a crescere per successive sovrapposizioni di pietre viventi in tutti questi duemila anni di storia.
Fra di esse troviamo i “padri apostolici” della prima generazione successiva a quella degli apostoli, i padri della chiesa latina come Agostino e Ambrogio e quelli della chiesa d’oriente come Giovanni Crisostomo e Basilio. Vi troviamo anche Pietro Valdo e Francesco d’Assisi, i grandi padri della riforma protestante insieme a quanti da allora fino ai giorni nostri hanno rivitalizzato la chiesa mettendosi profeticamente a disposizione di Dio nei successivi risvegli che ci sono stati, affrontando incomprensioni e talvolta le persecuzioni dei fratelli che non avevano la stessa rivelazione.
Continuità
Ed è stato così anche ai giorni nostri con la grande effusione di Spirito che ha caratterizzato i pentecostali all’inizio del secolo ed il movimento carismatico in tutte le chiese oggi. Lo Spirito Santo è sempre stato presente nella chiesa, e come l’ha condotta un tempo nella verità, continuerà a farlo fino ai giorni della pienezza.
Spesso la chiesa (e intendo dire tutta, quella universale composta da tutti i credenti in Cristo, al di là delle definizioni denominazionali) si è ridotta ad essere un lucignolo fumante o una canna rotta. La promessa di Dio è però che né la canna sarebbe stata rotta, né il lucignolo sarebbe stato spento finché la giustizia non avesse trionfato (Matteo 12:20). Se noi pensiamo alla città dove sono i sepolcri dei nostri padri spirituali, realizziamo subito che il vigore di un tempo e la luminosità del passato possono non solo essere recuperati, ma addirittura superati dalla gloria del tempio che si sta innalzando come dimora a Dio per lo Spirito. Altrimenti la riforma e le riforme non sarebbero state possibili.
Egregie cose sorgono alla mente ricordando il contributo di chi ci ha preceduto. La città dove sono i sepolcri dei nostri padri è in grande miseria e obbrobrio: a noi tocca levarci e restaurare. Restaurare le rovine delle antiche glorie, ridestare il ricordo di ciò che Sion è stata, ciò che è e ciò che sarà significa soffermarci con più seria consapevolezza su tutta quanta la nostra storia. Ci sentiamo onorati di appartenere alla città del nostro Dio perché: “Bello si erge, e rallegra tutta la terra, il monte Sion: parte estrema del settentrione, città del gran re” (Salmo 48:2).