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di Steve Clark
Spesso, i cristiani chiamati ad avere cura e responsabilità per la vita di altri – ad esempio, i pastori e i padri di famiglia – non ottengono i risultati sperati perché non hanno compreso adeguatamente l’applicazione pratica della legge e della grazia. Per aiutare le persone a vivere la vita cristiana, è necessario che sappiamo usare, da una parte, gli ordini e le regole, e dall’altra, l’incoraggiamento e il favore.
Una delle cause della nostra difficoltà nel comprendere l’utilità della legge è l’influenza del mondo di oggi, che rispetta sempre di meno ogni forma d’autorità. Un’altra è l’errata interpretazione dell’atteggiamento di Gesù nei confronti della Legge. Molti non riescono a capire perché si debba pretendere che le persone si adeguino a particolari norme di condotta. Essi credono che Gesù abbia rigettato la Legge, oppure che l’applicasse in maniera molto indulgente. Non è forse vero – dicono – che Egli violava deliberatamente le prescrizioni relative al sabato, rimproverava quelli che erano noti per la loro scrupolosa osservanza della legge, e si indirizzava piuttosto verso coloro che la trasgredivano?
Gesù e la Legge
Ma l’idea che Gesù si sia opposto alla Legge è una distorsione dei fatti. Nel Sermone sul Monte, Egli dice: “Non pensate che io sia venuto per abolire la Legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento… Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma chi li avrà messi in pratica e insegnati sarà chiamato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico che se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli” (1).
E’ chiaro da queste affermazioni che il Suo atteggiamento nei confronti della Legge non è affatto negativo: Egli insegna addirittura che la nostra giustizia deve superare quella degli scribi e dei farisei, i quali pure erano noti per il loro minuzioso rispetto della Legge.
“Voi avete udito che fu detto: Non commettere adulterio. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (2).
Gesù non vuole abolire la Legge. Piuttosto, sta dicendo che non basta conformarsi ad una norma esteriore: bisogna avere anche la giusta intenzione interiore. Non è sufficiente astenersi dall’atto dell’adulterio, se ancora, dentro di noi, ci permettiamo di desiderarlo. Quello che dobbiamo fare è conformarci interiormente alla regola del comportamento esteriore.
L’intenzione originale
“Dei farisei si avvicinarono per metterlo alla prova, dicendo: ‘E lecito mandar via la propria moglie per un motivo qualsiasi?’ Ed egli rispose loro: ‘Non avete letto che il Creatore, da principio, li creò maschio e femmina e che disse: Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e i due saranno una sola carne? Così non sono più due, ma una sola carne; quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi.’” (3).
Fra i rabbini di quel tempo c’erano due interpretazioni di questo brano. Secondo la scuola di Hillel, un uomo poteva ripudiare la moglie praticamente per qualsiasi motivo; i seguaci di Shamia, invece, sostenevano che il divorzio fosse consentito solo per certi motivi ben definiti. I Farisei, allora, vennero da Gesù per conoscere la sua posizione in materia. La loro domanda può essere letta in due modi: “E’ lecito mandare via la propria moglie per qualunque motivo si voglia?”, oppure: “Esiste qualche motivo per cui sia lecito mandare via la propria moglie?”
Gesù si dimostra più esigente di entrambe le scuole dei Farisei. Ma ciò che è importante è la maniera in cui è esigente. Egli non si limita a chiedere il rigido rispetto di una regola esteriore, ma piuttosto mette in primo piano quale sia l’intenzione fondamentale di Dio per questa sfera della vita.
Interrogato sulla regola mosaica per il ripudio, Gesù risponde che per capire bene la questione, bisogna cogliere l’intenzione originale di Dio per il matrimonio. La regola di Mosè era una concessione per i duri di cuore; ma chi vuole vivere il matrimonio nel modo giusto non può basarsi solo sulla Legge, ma piuttosto deve riconoscere l’intenzione di Dio: che i due diventino uno!
L’utilità della legge
Una legge è una regola che ci consente di affrontare diverse situazioni dello stesso genere. Per esempio, se un uomo sposato ha problemi con la moglie, la regola non è che divorzi, ma che studi i modi per risolvere il problema.
Gesù dice che le regole sono buone, perché danno importanti indicazioni per il comportamento umano. Ma insegna anche che non basta soddisfare solo esteriormente le esigenze della legge. Piuttosto bisogna vedere quale sia l’intenzione dietro la legge, e fissare il cuore su quello. La nostra attitudine deve essere quella di voler adempiere l’intenzione originale della legge.
E Gesù stesso ad enunciare quali siano gli scopi reali della legge: che siamo perfetti come il nostro Padre celeste (4) e adempiamo i Suoi piani per il creato. Tali obiettivi non possono essere ridotti ad una serie di regole. Queste possono esserci d’aiuto nel definire alcuni comportamenti da escludere, ma non saranno mai una guida completa per realizzare il disegno di Dio.
Questa valutazione positiva della legge non è in contraddizione con quanto dice Paolo. Egli infatti scrive che la legge è buona e che non possiamo ignorarla. Se chiediamo: “Possiamo fare a meno di osservare i comandamenti? E’ permesso ora commettere adulterio, visto che Cristo ci ha resi liberi?”, sappiamo già qual è la sua risposta: “No di certo!” (5)
Egli però aggiunge qualcosa di molto importante riguardo alla legge: che essa non porta la salvezza. In altre parole, non è la legge a metterci in condizioni di vivere la vita cristiana. Essa non ci può dare un rapporto diretto con Dio e neanche il potere di vivere secondo le norme che Dio ci ha date. Queste cose avvengono per mezzo della grazia di Dio e della fede in Gesù Cristo.
Applicare la legge
La legge, dunque, ha un ruolo nella cura pastorale, sia perché stabilisce un livello minimo per il comportamento, sia perché esprime qualcosa delle intenzioni di Dio per la nostra vita. Essa può avere una certa utilità nell’aiutare le persone à vivere come cristiani; ma non può tutto. La cura pastorale cristiana non esclude le regole, i comandi, la disciplina e la correzione; piuttosto, impiega queste cose con saggezza, avendo capito la loro utilità ed i loro limiti.
Praticamente, ci sono due modi principali in cui la legge può esserci utile. Il primo è quando c’è qualcosa che i cristiani devono fare o non fare. In questi casi dobbiamo dirlo, senza giri di parole: mettere in chiaro questo tipo di legge è un servizio indispensabile. Ciò si applica a comportamenti che sappiamo essere necessari oppure inaccettabili perché ce l’ha detto Dio; ed anche a cose che noi decidiamo essere necessarie o inaccettabili in situazioni per le quali portiamo la responsabilità.
Il secondo uso della legge è per aiutare gli altri ad esercitare la loro propria volontà per correggere determinati comportamenti: possiamo talvolta fare questo dando loro degli ordini al riguardo. Per esempio, un fratello al quale per un certo periodo assicuravo la cura pastorale aveva problemi nel controllare l’uso del suo tempo. Gli diedi ripetuti insegnamenti ed esortazioni su questo argomento, ma divenne sempre più evidente che aveva bisogno di qualcosa in più, perché doveva continuamente lottare con la sua debolezza in quest’area della vita. Alla fine, elencai alcune cose che avrebbe dovuto fare, e gli dissi che esigevo che le facesse: non avremmo più discusso, ma doveva ubbidire e basta. Alla fine di ogni giornata mi doveva riferire se le aveva fatte, e se no, doveva confessarlo come peccato.
Entro quindici giorni, ci fu in lui un cambiamento straordinario. Aveva potuto usare la mia forza di volontà per cominciare a prendere il controllo di quelle aree della sua vita, e presto verrà il momento in cui non avrà più bisogno di me. Questo cambiamento radicale illustra come le regole, gli ordini, e la correzione possono mettere nella vita di qualcuno una forza dall’esterno, consentendogli di fare delle cose che non sarebbe mai riuscito a fare da solo.
È importante che chiunque abbia responsabilità pastorale comprenda, non solo a che cosa è utile la legge, ma anche come usarla. Spesso i pastori hanno difficoltà per quanto riguarda la fermezza, le attese di ubbidienza, la severità, e il modo di adattarsi ad un rapporto pastorale in sviluppo.
Fermezza
La legge non sarà efficace se non usiamo fermezza. Recentemente ho avuto a che fare con un padre di famiglia, e il tipo di rapporto che ho osservato tra lui e i suoi figli illustra che cosa succede quando un capo non usa fermezza. Se diceva ai bambini di smettere di fare qualcosa, di solito essi continuavano a farlo. Per un po’ egli faceva finta di niente, poi tornava a dire: “La dovete finire di fare così!” Soltanto dopo averglielo detto più volte riusciva finalmente a fargliela smettere.
I bambini intuivano fino a che punto potevano averla vinta. Sapevano bene che il più delle volte, se non volevano, non era necessario ubbidire al padre quando dava loro degli ordini. Questo esempio mette in risalto un principio basilare per l’esercizio dell’autorità: quando diamo un ordine o stabiliamo una regola, dobbiamo farlo con fermezza, altrimenti perderemo di autorità e di rispetto.
Dobbiamo essere altrettanto fermi con le nostre promesse. Il Signore è un esempio perfetto di fermezza in tutto quello che dice. È questo che intende la Bibbia quando dice che Egli è fedele: Egli si mantiene fermo, non solo nei suoi comandi, ma anche nelle sue promesse. Quando dice che ci darà qualche cosa, ce la dà; quando dice che ci castigherà se facciamo qualcosa di sbagliato, e noi lo facciamo, ci castiga. Egli ci indica alcune eccezioni a questa regola, ma fondamentalmente ci tratta con fermezza.
Cosa non è la fermezza
Dobbiamo distinguere tra la fermezza e altre cose con le quali è talvolta confusa:
1) La fermezza non è asprezza: è infatti possibile essere fermi e nello stesso tempo dolci. Potremmo talvolta decidere di essere aspri in situazioni particolari, ma questo non è necessario per agire con fermezza.
2) La fermezza non va confusa con l’ira. Possiamo essere fermi e comportarci con-temporaneamente in una maniera calda ed affettuosa. Talvolta l’ira può essere appropriata, ma per essere fermi non è necessario adirarci.
3) La fermezza non è neanche severità. Possiamo essere fermi, cioè esigere il rispetto di quelle norme che stabiliamo, senza che queste siano delle norme molto difficili da osservare.
Attese di ubbidienza
Possiamo adottare due atteggiamenti diversi riguardo alle regole. Uno è quello di esigere il rispetto di ogni regola che stabiliamo. Se facciamo così, dobbiamo fare attenzione a non stabilirne molte. Di solito, una molteplicità di regole è avvertita da tutti come un grosso peso, oppure insegna a non tenere conto delle nostre richieste. Normalmente dobbiamo stabilire una regola solo quando la riteniamo importante; e se ci aspettiamo che sia rispettata da tutti, dobbiamo anche dedicare del tempo ad ammaestrare le persone ad osservarla.
L’altro atteggiamento è quello di considerare le regole che stabiliamo soltanto come suggerimenti o “consigli di perfezione”. Se adottiamo questa linea, bisogna dire chiaramente cosa stiamo facendo. Dobbiamo cioè mettere in evidenza quali regole vanno prese soltanto come indicazioni generali, e quali invece ci aspettiamo siano rispettate. Altrimenti, la gente sarà confusa dalle nostre direttive: avrà l’impressione che facciamo sul serio in alcuni casi e in altri no.
Severità
Fermezza significa aspettarci che siano rispettate le norme che stabiliamo. Severità, invece, significa stabilire delle norme esigenti e difficili da osservare.
La nostra ottica sulla severità deve essere influenzata dall’esempio di Gesù, il quale, come abbiamo già sottolineato, non era indulgente. Egli aveva un comportamento molto elevato, e spesso esigeva dagli altri un tenore altrettanto elevato. Questo ci insegna che richiedere il rispetto di certe norme può essere un importante modo di amare le persone. Così, infatti, le stimoliamo a tendere maggiormente verso ciò che dovrebbero essere. Di solito, essere indulgenti con le persone non significa amarle di più, ma piuttosto rinunciare ai nostri sforzi per stimolarle a diventare le migliori persone possibili.
Certo, esigere molto dalle persone non è il solo modo di portarle ad un alto livello: spesso faremmo meglio ad incoraggiarle a vivere secondo un ideale elevato. Inoltre, dobbiamo trattare diversamente le norme di giustizia, di ordinatezza, e di rendimento.
Severità e regole
I Dieci Comandamenti, e l’ordine di amarci reciprocamente, sono esempi di norme di giustizia. Queste riguardano questioni come il modo di comportarci con i nostri figli o con i fratelli. Li trattiamo bene? Li serviamo? Le norme di ordinatezza, invece, hanno a che fare con fatti come la puntualità, la pulizia, l’adempiere il proprio dovere nei lavori domestici. Le norme di rendimento, infine, riguardano il “frutto “ che portiamo. Quanti contatti stiamo stabilendo con i non credenti per evangelizzarli? Quanto tempo dedichiamo alla preghiera?
C’è un’importante differenza, innanzitutto, tra le norme di giustizia e quelle di ordinatezza. In genere, le norme di ordinatezza non riguardano questioni di bene o di male intrinseco.
Supponiamo, per esempio, che un capofamiglia annunci: “Maria deve lavare i piatti”. Se Maria poi non lo fa, non ha commesso il peccato di non-lavare-i-piatti: non c’è nessuna esigenza della giustizia divina che Maria debba lavare i piatti. E’ però diventato un suo dovere quando il capofamiglia gliel’ha chiesto per il buon ordine della famiglia.
Se, invece, Luigi ammazza suo fratello, ha fatto qualcosa che è intrinsecamente un male gravissimo. Non c’era bisogno che qualcuno annunciasse: “Luigi non deve ammazzare suo fratello”. Il male sta nella natura stessa dell’atto.
Il Signore guarda a questi due tipi di norma in modo diverso. Ci propone un livello molto alto di giustizia, ma non sempre si aspetta da noi un livello elevatissimo di ordinatezza. Nell’esercizio dell’autorità pastorale, è giusto essere esigenti nelle questioni che riguardano la giustizia. Non siamo liberi di decidere quale atteggiamento adottare in materia; non possiamo scegliere, cioè, di essere severi nei confronti dell’omicidio e indulgenti con l’adulterio.
Nelle questioni di ordinatezza, invece, non siamo obbligati ad essere così esigenti. Certo, il nostro desiderio è che i nostri fratelli siano fedeli nell’adempimento dei doveri; ma potremmo ad esempio insistere perché diano una mano nei lavori domestici, e decidere invece di chiudere un occhio se qualche volta arrivano in ritardo alle attività programmate.
Anche per quanto riguarda le norme di rendimento, abbiamo la stessa libertà di scelta. Può essere buono chiedere a tutti un alto livello di rendimento; ma dobbiamo tenere conto delle capacità di ogni individuo, in modo che le norme che proponiamo siano di stimolo piuttosto che di scoraggiamento.
Cura evangelistica
Spesso ci troviamo a dover seguire delle persone che non sono abituate a ricevere direttive personali da un capo spirituale, o che hanno difficoltà ad abituarsi ad una relazione del genere. In tali casi possiamo attenuare le nostre attese, proprio perché il rapporto non è ancora quello che dovrebbe essere. Possiamo iniziare il rapporto in maniera “evangelistica”, attirando la persona ad unirsi più profondamente a noi, piuttosto che agire come se il nostro rapporto fosse invece già stabilito.
Un caso in cui sarebbe stato opportuno agire così fu quello di un giovane che si stava avvicinando alla nostra comunità. Lo affidammo alla cura pastorale di un uomo che non aveva molta esperienza con questo tipo di responsabilità. Quando egli scoprì che il nuovo arrivato fumava la marijuana, si mise in allarme e ne fece una grossa questione. Il novizio, invece, non vedeva niente di particolarmente grave nella marijuana, e si chiedeva come mai l’altro si fosse turbato tanto. L’episodio complicò notevolmente il loro rapporto e fu un ostacolo alla risoluzione di altri problemi ancora più urgenti nella vita del “novizio”. L’uomo con responsabilità pastorale, in questo caso, non seppe aspettare il momento giusto per affrontare e risolvere il problema della droga.
Certo, in alcuni casi, la prima questione da affrontare nella vita di una persona sarà quella della droga. Ma nel caso specifico di quel giovane, non era il punto giusto da cui cominciare. Il responsabile avrebbe dovuto avere cura di creare prima un rapporto e un’intesa con il giovane, per poi affrontare la questione della droga al momento opportuno.
Grazia
Siamo abituati a pensare alla grazia esercitata da Dio, non da noi. Ma il Signore si aspetta che anche noi siamo pieni di grazia, e la grazia è una componente molto importante della cura pastorale. Fondamentalmente, “grazia” significa “favore”; vuol dire favorire qualcuno, specialmente quando tale favore non è meritato e non siamo in obbligo di darlo.
Nel contesto pastorale, la grazia opera in due modi importanti. In primo luogo, mentre l’uso della legge è un elemento del rapporto pastorale, la grazia deve stare alla base del rapporto stesso. Quando facciamo da pastori alle persone, dobbiamo darci a loro liberamente: non devono sentirsi in obbligo di guadagnare o meritare in qualche modo la nostra cura.
Si dice spesso, oggi, che i cristiani devono accettare gli altri. Questo può essere interpretato in due modi molto diversi. La prima interpretazione è che non dobbiamo mai respingere le persone, ma amarle nonostante i loro difetti. In questo senso, accettare una persona significa agire con grazia, dare la nostra amicizia, offrire liberamente il nostro amore senza badare a come è fatto l’altro.
Un’altra interpretazione è che non dobbiamo far caso al modo in cui vive l’altro: anche se qualcuno, cioè, dovesse vivere una vita piena di peccato e trattasse male tutti, la grazia ci spinge comunque a comportarci con lui come se vivesse nel modo giusto.
Ma questo è un modo sbagliato di intendere la grazia. Certo, il Signore vuole che amiamo le persone nonostante quello che sono, ma questo non significa che il loro modo di vivere non debba condizionare in alcun modo il nostro rapporto con essi.
Una donna che aveva dei problemi con la nostra comunità mi disse una volta: “I vostri membri non mi vogliono bene. Stanno sempre a cercare di farmi cambiare. Dovrebbero piuttosto accettarmi e amarmi così come sono”. Cercai di spiegarle che il Signore la amava e che stava dalla sua parte nonostante i suoi peccati, ma che tuttavia Egli non tollerava questi peccati, anzi, proprio perché desiderava il suo bene voleva che cambiasse.
Il ruolo di paracleto
Il secondo modo in cui la grazia si esprime nel rapporto pastorale è attraverso l’incoraggiamento. Certo, i pastori devono essere diligenti nel far presente alle persone le esigenze della legge divina: Dio vuole che prendano coscienza di quelle aree della loro vita in cui vengono meno alle Sue norme, cioè peccano. Ed è nostra responsabilità istruire le persone, dicendo loro le cose che devono fare e anche mostrando loro come farle. Ma non dobbiamo mancare di incoraggiare coloro per le quali siamo responsabili.
Possiamo fare questo in vari modi. Un modo di incoraggiare è con l’esempio della nostra vita: quando essa manifesta la vita e il carattere di Dio, gli altri sono stimolati ad imitarci, anche senza che glielo chiediamo. Possiamo anche incoraggiarli a fare ciò che è giusto semplicemente dicendo loro che è bene; possiamo portarli all’ubbidienza esortandoli, senza necessariamente imporlo come un obbligo. Possiamo raccontare loro ciò che il Signore ha fatto per noi, ed invitarli a leggere quello che Egli ha fatto per i cristiani del passato. Possiamo incoraggiarli con la nostra lode e con i commenti favorevoli quando si comportano bene e fanno un buon lavoro.
C’è una relazione tra la rivelazione della legge, da una parte, e il dono della grazia, dall’altra. Dopo averci dato le Sue norme per la nostra vita e il nostro comportamento, il Signore ci dà anche il Paracleto (Consolatore, Incoraggiatore), lo Spirito Santo, il quale ci mette in grado di fare le cose che Egli ci chiede. La Chiesa è edificata quando gode del Suo incoraggiamento (6).
Allo stesso modo, il Signore vuole che anche noi siamo un “paracleto” per le persone sottoposte alla nostra cura. Egli vuole che ci schieriamo al loro fianco; vuole che ci sentano come una fonte di forza, di aiuto e di incoraggiamento, per vivere la loro vita da veri cristiani.
(1) Matt. 5:17, 19-20;
(2) Matt. 5:27-28;
(3) Matt. 19:3-6;
(4) Vedi Matt. 5:43-48;
(5) Rom. 6:1-2;
(6) Atti 9:31.