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di Massimo Loda
I profeti erano la bocca di Dio per il popolo al quale il Signore voleva parlare. Era dei profeti il compito di vedere anticipatamente e di comunicare al popolo la via di Dio. E questa era la ragione per cui “anticamente in Israele i profeti erano chiamati veggenti” (1° Samuele 9:9).
La validità del loro ministero non era legata all’indice di ascolto presso la gente, ma all’ordine divino che veniva loro impartito: “Figlio d’uomo, io ti mando ai figli d’Israele … Non aver paura di loro … tu riferirai loro le mie parole, sia che ti ascoltino o non ti ascoltino” (Ezechiele 2:3, 6-7).
Davide, l’uomo secondo il cuore di Dio, si lasciava guidare dai profeti nella riforma del culto all’Eterno: “Il re stabilì i Leviti nella casa del Signore, con cembali, con salteri e con cetre, secondo l’ordine di Davide, di Gad, il veggente del re, e del profeta Natan; poiché tale era il comandamento dato dal Signore per mezzo dei suoi profeti” (2° Cronache 29:25).
Mosè è stato profeta nel condurre fuori dall’Egitto il popolo di Israele, anticipando così il cammino che poi avrebbe dovuto compiere la chiesa. “Non c’è mai più stato in Israele un profeta simile a Mosè, con il quale il Signore abbia trattato faccia a faccia” (Deuteronomio 34:10).
Mosè aveva con Dio un rapporto unico nella storia di Israele proprio per la particolarità del modo in cui si incontravano, cioè “faccia a faccia”. Da questi incontri Mosè usciva non solo con il senso della direzione divina sul cammino da compiere, ma anche con tutti i particolari sull’organizzazione del culto e della vita sociale della nazione. Nel suo incontro con Dio, riceveva tutto il progetto per il presente e per il futuro.
A nostro beneficio
Nel Nuovo Testamento ci è detto che il ministero dei profeti era teso ad anticipare non solo la salvezza e la grazia, ma anche le glorie che sarebbero seguite alle sofferenze di Gesù. L’adempimento del loro ministero era destinato non a se stessi, ma a noi (1° Pietro 1:10-12) che siamo i figli dei profeti e del patto che Dio ha stabilito con i nostri padri. Su di noi, figli di Abramo, Dio ha investito per benedire tutte le nazioni della terra (Atti 3:24-25).
Nello stesso capitolo leggiamo (v.21) che fin dal principio del mondo i profeti hanno annunciato il ritorno del Signore, vedendolo preceduto da tempi di freschezza spirituale e di recupero delle cose perdute. Questi tempi sono caratterizzati dal desiderio della chiesa di preparare se stessa per le nozze con l’Agnello (Apocalisse 19:7) per comparire quel giorno senza rughe (i tipici segni della vecchiaia), ma santa e risplendente (Efesini 5:27) delle glorie che devono seguire (1° Pietro 1:11).
I profeti avevano quindi il compito di indicare la volontà di Dio là dove c’era il vuoto o di restaurarla quando si fosse perduta lungo la strada della storia. In questo modo stabilivano le connotazioni del popolo di Dio, definendone il cammino in tutto il progetto elaborato da Dio.
Come figli dei profeti, anche noi ci assumiamo la responsabilità di annunciare ciò che il Signore ha nel cuore. Continuatori di Giovanni il Battista, anche noi siamo i messaggeri della buona notizia che il regno à finalmente giunto.
Freschezza
Ma, come Mosè, abbiamo bisogno continuamente di incontrare il Signore in modo tale che “quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo” (1° Giovanni 1:3). L’annuncio parte da ciò che abbiamo prima visto, toccato, vissuto e contemplato nel nostro stare con Dio. Non possiamo essere un popolo profetico se non abbiamo un incontro con Colui che ha creato il progetto e dal quale vengono gli ordini per la sua realizzazione. Ciò che abbiamo visto, toccato, contemplato, quello proclamiamo.
L’essere profetici parte dunque da un profondo e continuo rapporto con il Signore per vederLo e ascoltarLo. Quando l’Eterno parla, ha bisogno di un popolo che riceva, che ascolti e che sia disponibile. Abbiamo il compito di rendere visibile una proclamazione che non ha le sue radici in un concetto filosofico astratto ma in ciò che abbiamo visto, udito, contemplato e toccato. Così come la Parola si è fatta carne e ha abitato per un tempo fra di noi, bisogna che anche noi la incarniamo, rendendoci visibili al mondo per tradurre in pratica un’idea.
Anche Dio il Padre, che abita in una luce inaccessibile e che nessun uomo ha mai potuto vedere (Giovanni 1:18; 1° Timoteo 6:16), si è fatto conoscere rendendosi visibile per mezzo di Gesù, il quale ne è diventato la perfetta immagine (Colossesi 1:15). A Filippo che chiedeva di vedere il Padre, Gesù ha potuto rispondere: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Giovanni 14:9). Quindi in realtà ci sono stati uomini che hanno potuto vedere il Padre nella figura fisica di Gesù.
Quello che Dio ha detto dal cielo deve essere visto in noi qui sulla terra, trasformandosi in vita. I profeti si occupavano del servizio al Signore dando delle indicazioni a Israele; e così è per la chiesa.
Proclamazione
A noi che siamo qui, che cosa è stato affidato? A quale tipo di proclamazione siamo chiamati? Cosa significa essere profetici oggi?
Ricordiamo che Davide ha profetizzato e servito Dio nella sua generazione (Atti 13:36). Certo, se io sono profeta per la generazione di mio nonno, non sono più utile per la trasmissione della volontà di Dio nella realtà odierna. Devo ascoltare cosa Dio ha da dirmi oggi per i progetti che devono compiersi da ora fino a quando Gesù ritornerà.
Dare mano all’aratro senza voltarsi indietro significa non vivere più della rendita delle benedizioni del passato, che per definizione è passato, ma guardare invece alle glorie del futuro e al lavoro che c’è ancora da fare per Dio. La chiesa ha l’urgenza di diventare un “segno dei tempi” con una mentalità e un modo di essere non ancorati alla manna di ieri, ma che invece riflettano la vita e i rapporti di quello che Dio ha in mente di fare mentre stabilisce il Suo Regno.
Il Signore ci ha affidato la proclamazione della restaurazione, e siamo profetici solo se, insieme alle verità teologiche sulla salvezza, proclamiamo: “Venga il tuo regno!” Il popolo profetico è quello che anticipa gli obiettivi di Dio, li dimostra vivendoli per comunicarli così ad altri. Giovanni Battista preparava la via. Non era lui stesso la Via, ma l’apriva, togliendone sassi e macerie per rendere praticabile la realizzazione del progetto di Dio.
Restauratori
Dio creò l’uomo a Sua immagine, poi l’uomo cadde e l’immagine di Dio si guastò. Gli diede il dominio su tutte le cose create, e anche questo fu danneggiato con la caduta. Ma nella prima lettera ai Corinzi, Paolo, dopo aver parlato del primo Adamo, il demolitore, presenta l’ultimo Adamo, il grande restauratore dell’immagine divina in noi che, legati insieme, formiamo la Sua Chiesa.
“Quelli che ha preconosciuti, li ha pure predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Romani 8:29). Il nostro destino è dunque di essere conformi all’immagine del Suo Figlio. Siamo chiamati a essere nella nostra generazione i portatori di questa immagine, che altro non è che l’immagine del Padre (Colossesi 1:15; Romani 8:29): Cristo visto, udito toccato e contemplato in noi.
Questo qualifica la chiamata: sappiamo chi siamo, a cosa dobbiamo lavorare e verso cosa andiamo: siamo chiamati nella nostra generazione ad essere la rappresentazione di Gesù. Essere profeti vuol dire restaurare la Sua immagine nella Chiesa, che è la città dell’Iddio vivente, la Gerusalemme celeste (Ebrei 12:22-23), definita da Paolo “nostra madre” (Galati 4:26).
Noi siamo dunque figli della Gerusalemme celeste, ma non solo: siamo anche “il compimento di colui che porta a compimento ogni cosa in tutti” (Efesini 1:23). Colui che porta tutto a compimento è Gesù e noi siamo la Sua pienezza, “ … perché noi siamo membra del suo corpo, della sua carne e delle sue ossa” (Efesini 5:30 Nuova Diodati), allo stesso modo in cui Eva lo era per Adamo: “Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo” (Genesi 2:23), così come noi siamo stati tratti da Cristo. Cristo compie le Sue opere con noi che siamo “l’aiuto adatto a Lui”, la Chiesa, la sua sposa.
Quando Gesù fu sulla croce, dal suo costato lacerato uscirono sangue e acqua. Questi due sostanze esprimono la natura della Chiesa: santa, ma limitata dalla sua umanità. È interessante l’analogia fra il primo uomo, Adamo, dal cui costato fu formata Eva, e il secondo uomo e ultimo Adamo, il Signore Gesù, dal cui costato uscì l’immagine della Chiesa.
Incarnazione
L’incarnazione del messaggio è una costante caratteristica dei profeti. Nessuno di loro ha mai soltanto parlato, ma perché il popolo potesse meglio comprendere, hanno reso visibili attraverso immagini o simboli il messaggio che Dio voleva dare. Alcuni esempi: il profeta Eliseo e le frecce, Geremia e il giogo sulle spalle, Osea e la moglie prostituta, Ezechiele e il mattone da cingere d’assedio, Giovanni Battista e il suo strano abbigliamento. Perché questa scenografia? Perché essi dovevano essere i segni visibili e udibili di quanto il Signore aveva da dire alla nazione.
Altri prima di noi sono stati chiamati a restaurare la chiesa del Signore. Un esempio universalmente riconosciuto è Francesco d’Assisi, che per il tempo in cui visse fu un profeta e ambasciatore di Cristo. Dopo aver ricevuto il messaggio divino sullo stato di miseria della chiesa, si spogliò dei suoi averi, indossò una tunica e incominciò a predicare il ravvedimento. Tutti i suoi gesti, il suo abbigliamento, il suo stile di vita parlavano di quello che Dio voleva fare. E questa fu la chiave del successo della sua opera! Migliaia di giovani si convertirono e lo seguirono, vedendo in lui non tanto un abile oratore, ma un fedele esecutore della volontà di Dio, disposto a pagare in prima persona. Questo ha reso credibile il messaggio!
Si tratta di incarnare le verità bibliche di cui siamo portatori. Io non discuto la chiamata degli altri perché appartiene a loro, ma devo rispondere personalmente di ciò che Dio richiede a me. Quando Giuseppe e Maria presentarono Gesù al tempio, sentirono dire di lui: “Egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione” (Luca 2:34). Una persona dunque che avrebbe dato dei problemi, di fronte alla quale la gente si sarebbe dovuta misurare e dire: ci sto o non ci sto.
Gesù, la perfetta immagine del Padre, aveva in sé tutte le caratteristiche del progetto di Dio. Noi dobbiamo essere una sfida per questa società. Gesù ha dato il suo corpo per essere un segno dell’autorizzazione divina a restaurare la casa del Padre, trasformata dagli uomini in un “covo di ladri” (Giovanni 2:13- 22, Matteo 21:12-13). Ora il Risorto ci ha riservato l’onore di essere la continuità del Suo corpo, la Sua estensione qui sulla terra, con l’implicazione di andare spesso controcorrente, affrontando il dolore dell’incomprensione, della derisione e dell’isolamento. Poiché “non sono più io che vivo” (Galati 2:20) con la necessità egocentrica di essere sempre gratificato, posso entrare nella comprensione della preghiera sofferente di Gesù: “Non la mia volontà, ma la tua sia fatta” (Luca 22:42).
Mentalità carnale
Un grande nemico del profetismo continua ad essere lo stile di vita propostoci dalla cultura in cui siamo immersi con il suo continuo invito a concentrare tutta l’attenzione su noi stessi, sulla soddisfazione dei nostri bisogni e sul nostro stare bene. Anche in chiesa, nel momento in cui pensiamo solo a ricevere benedizioni, assumiamo un atteggiamento che pur travestito di apparente spiritualità, è profondamente mondano e carnale nel suo egocentrismo. Vittime di questo inganno, dimentichiamo che la nostra armonia si ristabilisce solo tornando alla ragione per la quale siamo stati creati: “ … per mezzo di Lui e in vista di Lui” (Colossesi 1:16). Un ruolo profetico quindi!
In Romani si parla di persone abbiette che “hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore” (1:25). Questa descrizione non comprende una sola categoria di persone, ma è l’immagine dell’umanità intera. Tali idolatri non sono presenti solo nei santuari della religiosità esteriore, ma possiamo essere anche noi quando ci lasciamo impregnare della cultura che quotidianamente ci passano scuola, giornali e televisione: l’esaltazione e l’adorazione dell’uomo con il culto dei sensi e del corpo. “Siccome non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abbandonati in balìa della loro mente perversa” (1:28). E questo tipo di mente è incapace di discernere la verità di Dio, secondo la quale tutto deve muoversi non intorno all’uomo, ma alla realizzazione del progetto divino.
Quando questa mentalità, seppur spiritualizzata, trova ospitalità nella chiesa, allora perdiamo il nostro taglio profetico conformandoci alla mentalità del mondo (Romani 12:2-5): usciamo dalla misura di fede che ci è stata assegnata, ci innalziamo e non comprendiamo che siamo un corpo le cui membra si appartengono reciprocamente. Non siamo più visibili, udibili e palpabili come il corpo di Cristo. La proclamazione si svuota di potenza perché non ha realtà.
Talvolta questa mentalità è radicata nel nostro cuore. Non siamo chiamati a essere un sale senza scopo, ma un sale che si immerge, che si scioglie e si diffonde nel mondo per portarvi alimento e sapore. Quindi la chiamata profetica non è quella dell’isolamento ma quella del mescolarsi, così come fa il lievito che mangiato da solo è cattivo, ma insieme ad acqua e a farina produce qualcosa di buono.
Quando la Scrittura dice: “Chi riceve voi, riceve me” (Matteo 10:40) ha come presupposto: “Io sono in loro e tu in me” (Giovanni 17:23) secondo lo schema: io immagine del Figlio, il Figlio immagine del Padre. Di che cosa siamo ambasciatori? Cosa portiamo? Cosa ha originato la nostra visione? Ha dato forma al nostro futuro?
Quando lavoriamo con la piena convinzione della nostra chiamata, ne trasferiamo ad altri l’entusiasmo, diventando coloro che fanno ricevere Gesù, e quindi il Padre con tutto ciò che ha nel cuore. Ricevere Gesù è ricevere non solo delle informazioni dottrinali, ma una persona con i suoi sogni e desideri. Il cuore di Gesù è di consegnare il Regno al Padre alla fine dei giorni, quando l’ultimo nemico sarà sconfitto e il piano di restaurazione sarà compiuto. Lì è ricevere Gesù, il cuore e la mente del Padre.
Tra cielo e terra
La proclamazione del regno obbliga ad essere profetici perché ha come implicazione l’introduzione sulla terra di cose presenti nella loro totalità solo nel cielo. La preghiera che Gesù ci ha insegnato, che conosciamo con il nome di “Padre Nostro” regola il rapporto fra cielo e terra: “venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà anche in terra come è fatta in cielo”. In poche parole, la terra dove siamo deve diventare lo specchio e l’immagine di quello che c’è in cielo.
C’è quindi una profonda relazione fra il cielo e la terra, fra noi e il Padre. Siamo profeti perché portatori seppure in modo parziale, di una realtà già esistente nel cielo. Infatti il nostro battesimo cos’è se non un anticipo della Resurrezione? In quel giorno porteremo l’immagine della perfezione del cielo, ma ne portiamo già un piccolo anticipo: “ci ha risuscitati con lui e con lui ci ha fatti sedere nel cielo in Cristo Gesù” (Efesini 2:6).
Anche la nostra conversione ci ha introdotti in un anticipo del cielo, infatti siamo entrati a far parte della Gerusalemme celeste che è la chiesa dei redenti, oasi del cielo qui sulla terra.