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di Geoffrey Allen
Un giorno un credente giovane e zelante, durante un viaggio in treno, si è trovato davanti un anziano vestito da ministro di culto.
Bruciando del desiderio di testimoniare a tutti della propria fede, il giovane fece in modo da entrare in conversazione con lui e ben presto portò il discorso sull’argomento religioso. A un certo punto, poi, gli rivolse la domanda scottante: “Vedo che lei è un uomo di chiesa – gli disse – ma la questione vitale è: Lei è salvato?”
L’altro – il quale, se solo il giovane l’avesse saputo, era un noto teologo evangelico – fece un sorrisetto tra il divertito e il compiaciuto. “Giovanotto – rispose – la sua domanda è poco precisa. Lei vuole sapere se in passato sono stato salvato? oppure se Dio attualmente mi sta salvando? oppure ancora, se sono sicuro che alla fine sarò salvato?”
Il giovane, imbarazzato, non seppe più come rispondere e dovette riconoscere che neanche lui aveva le idee chiare sulla sua stessa domanda.
E in effetti, la Parola di Dio parla della salvezza come un atto già compiuto: “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede” (Efesini 2:8).
Ma ne parla anche come di un processo ancora in atto: “Adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore” (Filippesi 2:12); “ricevete con dolcezza la parola che è stata piantata in voi, e che può salvare le anime vostre” (Giacomo 1:21).
E ne parla anche come qualcosa che è ancora nel futuro, che riceveremo solo nel giorno della resurrezione: “Essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira … Ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Romani 5:9-10).
Impoverimento
Nel mondo evangelico, abbiamo troppo spesso impoverito e ridotto ai minimi termini parole bibliche vaste e ricche quali, appunto, “salvezza” e, tema ad essa intimamente collegato, “vangelo” (che la Bibbia chiama, appunto, “il vangelo della nostra salvezza” – Efesini 1:13).
La salvezza del Nuovo Testamento non è il solo perdono dei peccati. Infatti, già nell’Antico Testamento gli Ebrei facevano questa meravigliosa esperienza, come testimonia il re Davide: “Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata, e il cui peccato è coperto! Beato l’uomo a cui il Signore non imputa l’iniquità …!” (Salmo 32:1-2).
Né la salvezza è soltanto la giustificazione (cioè, l’atto giuridico per cui Dio, per i meriti di Cristo, ci considera innocenti anziché peccatori), anche se questa ne è ovviamente una pietra fondamentale. E neanche è solo la pace con Dio e la sicurezza che Egli ci manterrà fedeli fino alla fine e ci salverà nel giorno del giudizio eterno.
Il vangelo biblico comprende tutte queste cose, e molte altre ancora! Comprende la santificazione, cioè l’acquisizione progressiva della santità di Dio nella vita vissuta (cfr. Filippesi 2:12, 1° Timoteo 4:16), che anzi ne forma una parte così integrale che la Bibbia parla della “santificazione senza la quale nessuno vedrà il Signore” (Ebrei 12:14). Comprende la guarigione delle malattie e delle infermità del corpo, di cui nei Vangeli Gesù parla spesso proprio con il termine “salvezza” (in greco sozein, soteria – vedi Luca 7:50, 18:42, Giacomo 5:15).
Comprende anche la salute mentale e psicologica, cioè la liberazione e il risanamento di quella che la Bibbia chiama la nostra “anima”, e che è certamente molto più importante del corpo fisico (vedi 1° Tessalonicesi 5:23). Comprende la salute e il benessere del matrimonio e della famiglia, nonché la protezione e la benedizione divina su tutte le circostanze della nostra vita, anche quelle materiali, di cui Dio pure s’interessa (anche se sono certamente molto meno importanti di ciò che è destinato a durare nell’eternità).
Comprende ancora la speranza della resurrezione del corpo e della vita eterna: “Siamo sobri, avendo … preso per elmo la speranza della salvezza. Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo” (1° Tessalonicesi 5:8-9). “Il Signore mi libererà da ogni azione malvagia e mi salverà nel suo regno celeste” (2° Timoteo 4:18).
E potremmo elencare altri aspetti ancora. Nessuna meraviglia se la Scrittura la definisce “una così grande salvezza”! (Ebrei 1:3)
Già e non ancora
Il regno di Dio – è un luogo comune della teologia biblica – è nello stesso tempo “già” e “non ancora”. E questo è vero allo stesso modo anche della salvezza, che con il Regno è intimamente collegata. È la nostra sorte vivere la nostra vita terrena in questa tensione.
Ciò è certamente vero della salvezza dal peccato: siamo “già” giustificati, cioè liberati dalla colpa e dalla condanna del peccato. Ma solo nel mondo a venire saremo completamente liberati dalla sua influenza: finché siamo nella carne saremo sempre tentati e potremo sempre cedere alla tentazione. E il nostro progresso nella vita cristiana è in gran parte determinato e misurato dalla progressiva e graduale liberazione dal suo controllo: la santificazione, appunto, che non è distinto dalla “salvezza” ma, come abbiamo visto sopra, ne fa parte integrante.
Ancora di più questo è vero della salvezza fisica. Già possiamo gustare nel nostro corpo le “potenze del mondo futuro” (Ebrei 6:5). La guarigione di infermità e malattie è un potente segno del regno di Dio che irrompe fin d’ora nel nostro mondo temporale e nella nostra mortalità (Matteo 10:1,7-8). Ma è pur sempre vero che stiamo ancora “aspettando … la redenzione del nostro corpo” (Romani 8:23), che avverrà solo al ritorno di Cristo quando “saremo trasformati” e “questo mortale rivestirà l’immortalità” (1° Corinzi 15:52-53).
Fino allora, ogni guarigione è sempre come mettere una toppa a un vestito vecchio: riusciamo a prolungarne un po’ la vita e l’utilità del corpo mortale, ma è comunque destinato a logorarsi e a perire col tempo.
Il cuore del Vangelo
Davanti a questa ricchezza del vangelo biblico, si impone una domanda: Qual è allora il nocciolo, il cuore, il messaggio centrale del Vangelo?
Troppi credenti annunciano un “vangelo” che suona più o meno così: “Vieni a Gesù e avrai la pace a la felicità”. Oppure: “Vieni a Gesù ed egli risolverà tutti i suoi problemi”. (Quest’ultima versione, tra l’altro, è una bugia bell’e buona, dal momento che Gesù, al contrario, ha promesso a chi lo segue: “Nel mondo avrete tribolazioni”!). Altri predicano un messaggio che, volutamente o meno, sottolinea soprattutto la guarigione delle malattie, e talvolta anche il successo e la prosperità materiale. Ma sono forse queste le cose che Dio mette in primo piano?
Altri fanno affidamento su schemi quali le “quattro (o tre, o cinque) leggi spirituali”. Questi possono certamente avere una loro utilità, soprattutto nel dare al credente titubante un minimo di sicurezza nel parlare della propria fede. Ma comportano un grosso rischio: quello di ottenere dalle persone un consenso puramente mentale a una serie di proposizioni logiche. “Credi che la Bibbia è la parola di Dio?” “Sì”. “Bene, la Bibbia dice che siamo tutti peccatori. Guarda: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio». Dunque, anche tu sei un peccatore”. “Be’, se lo dice la Bibbia …” “Va bene. Ora, credi che Gesù è morto per i tuoi peccati?” “Certo!” “Gloria a Dio, allora sei salvato!”
Forse questa è una caricatura … ma non troppo! In certe nazioni il numero di coloro che hanno “accettato Cristo” in qualche campagna evangelistica o in qualche chiesa evangelica è … diverse volte superiore all’intera popolazione! Circa la metà della popolazione statunitense asserisce di essere “nata di nuovo” … ma a guardare le condizioni morali e sociali del loro paese, non si direbbe! “Li riconoscerete dai loro frutti”, ha detto Gesù (Matteo 7:16).
Il problema del peccato
Qual è, allora, il nocciolo del messaggio biblico della salvezza? Credo che possiamo dire con tranquillità che il cuore del Vangelo è il messaggio della riconciliazione dell’uomo peccatore con Dio.
Il problema è che, nella nostra società di fine secolo, l’uomo non comprende più di essere un peccatore! Il peccato è diventato una barzelletta. Troviamo il termine “peccato” nel titolo di innumerevoli films comici; l’ho visto anche nel nome di una trattoria …! “Peccato” non significa più, nella mente delle gente, “veleno mortale”, “distruzione eterna”, “condanna all’inferno senza possibilità di scampo”. È diventato sinonimo di “innocente godimento”.
E anche chi prende ancora sul serio il peccato, di solito non ne ha capito la vera natura. La maggior parte lo concepisce come la trasgressione di una serie di regole (talvolta arbitrarie) promulgate da una Chiesa istituzionale, e che comunque riguardano per lo più non il rapporto tra l’uomo e Dio, ma quello con il prossimo.
Se chiediamo all’italiano medio: “Lei si rende conto di essere un peccatore?”, la risposta più frequente (come probabilmente tutti noi abbiamo avuto modo di constatare) è: “Ma no! Io non rubo, non ammazzo, non faccio del male a nessuno …”.
Chi parla così tradisce il fatto di avere un concetto antropocentrico (cioè centrato sull’uomo, non su Dio) del peccato. Si è dimenticato che il peccato non è, innanzitutto, un’ingiustizia commessa contro l’uomo, ma un’offesa recata a Dio.
Qual è, infatti, secondo Gesù, “il grande e il primo comandamento”? Non è forse questo: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Matteo 22:36-38)? È evidente, allora, che il primo e più grande peccato deve essere quello di amare altre cose o altre persone più di Dio. È “avere altre dèi oltre a me” (Esodo 20:3).
Non ci può essere predicazione del Vangelo, non ci può essere vera conversione, fino a che l’uomo non prenda profondamente coscienza di essere in ribellione contro Dio, suo Creatore e Sovrano sull’universo.
Pianeti, non stelle
Quando Dio creò l’uomo, non lo progettò in modo tale da poter vivere in maniera autonoma e indipendente. Lo creò per vivere in un rapporto di completa dipendenza da Lui: non un “sole”, al centro del proprio universo, ma un “pianeta”, fatto per ruotare attorno all’unico “Sole”, che è Dio. E, come la nostra Terra non contiene in sé una fonte di energia ma è riscaldata dal sole, dal quale deriva la luce e il calore che vi rendono possibile la vita, così l’uomo non è fatto per risplendere di una luce propria, ma deriva la luce e la forza dal rapporto e dalla vicinanza a Dio (cfr. 2° Corinzi 3:18).
Immaginiamo che il nostro pianeta volesse un giorno staccarsi dal Sole. “Perché dovrei ruotare sempre intorno a lui? Me ne andrò e diventerò un sole per conto mio, e così magari troverò anche il modo per far ruotare altri – a partire dalla mia Luna – intorno a me”. Che cosa accadrebbe? In breve tempo diventerebbe un pianeta completamente morto, assolutamente sterile. Non ha in sé la sorgente della vita.
Ma è esattamente ciò che è successo all’uomo! Ha voluto staccarsi dal “Sole della giustizia”, pensando così di “diventare come Dio” (Gen. 3:5). Invece è diventato sterile, spiritualmente morto, alienato dalla sorgente della vita, che si trova solo in Dio.
Solo quando è venuto sulla terra il “secondo uomo”, Cristo (1° Corinzi 15:47), si è visto un essere umano vivere secondo il disegno originale del Progettista. “Il Figlio non può da sé stesso far cosa alcuna, se non la vede fare dal Padre”. “Io non posso far nulla da me stesso; come odo, giudico … cerco non la mia propria volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato …” (Giovanni 5:19,30).
Frutti e radice
La radice del peccato non è dunque nelle singole azioni, “i peccati”. Sta in un rapporto sbagliato. È una vita vissuta autonomamente, anziché in una profonda dipendenza da Dio e dalla Sua volontà.
Come ha ben detto Watchman Nee: “Non è che diventiamo peccatori perché commettiamo dei peccati; al contrario, commettiamo i peccati perché siamo peccatori”! È per questo che non risolveremo mai il problema del peccato staccando dall’albero i singoli frutti amari che produce. Occorre tagliare l’albero alla radice e innestarvi una pianta nuova, radicalmente diversa. Ecco perché “bisogna che nasciate di nuovo”! (Giovanni 3:7).
Ma non si può nascere di nuovo senza passare attraverso quello che la Bibbia chiama “ravvedimento”. E il ravvedimento non è soltanto un sentimento di rimorso (né tantomeno un “atto di dolore”!) per i peccati; è una decisione di farla finita con il peccato, cioè di tornare a Dio per riconoscerLo come Signore, Sovrano e Re. È abbandonare ogni tentativo di vivere la propria vita nell’indipendenza da Lui. Dio non scende in trattative con nessuno. E perché dovrebbe? Non ha certo bisogno di noi, mentre noi abbiamo bisogno assoluto di Lui! Come le potenze alleate della seconda guerra mondiale, accetterà di fare la pace a una sola condizione: la resa incondizionata!
Il Vangelo del Regno
Ecco perché Gesù parla del messaggio del Vangelo con l’espressione “il vangelo del regno” (Matteo 4:23, 24:14). Non si può separare il Vangelo dal Regno, cioè dal governo e l’autorità di Dio. Si veda, per esempio, il classico testo di Isaia 52:7:
“Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie [in termini neotestamentari, ‘dell’evangelista’!], che annunzia la pace, che è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza,
che dice a Sion: «Il tuo Dio regna!»”
Non è solo che Dio, attraverso il Vangelo, introduce e stabilisce il proprio governo sconfiggendo i suoi nemici: i demoni, le malattie e tutto il dominio del diavolo (cfr. Atti 10:38). Il Vangelo è anche l’annuncio del fatto che il nostro Dio regna, e che tutti devono sottomettersi al Suo dominio, pena la morte eterna che è separazione permanente da Lui! A questo scopo egli manda i suoi “ambasciatori” agli uomini, ribelli contro il suo dominio eterno, a far conoscere la sua magnanima offerta di pace e di riconciliazione.
Ha ragione lo scrittore cristiano A. W. Tozer quando denuncia “l’eresia del Cristo diviso”:
“La dottrina discreditata di un Cristo diviso così si esprime: «Cristo è Salvatore ed è anche Signore; un peccatore può essere salvato accettando Gesù come Salvatore, senza arrendersi a Lui quale Signore». No, l’azione salvifica di Cristo è per sempre unita alla Sua signoria. Cristo deve essere Signore, o non sarà neanche Salvatore” 1
Ogni “vangelo” che non proclama questa realtà è “un altro vangelo” … anzi, non è proprio Vangelo, dal momento che (come Paolo ha cura di aggiungere) “non c’è un altro vangelo” (Galati 1:6-7) – cioè un’altra “buona notizia” – ma solo un annuncio ingannevole di false speranze!
Abbiamo urgentemente bisogno di recuperare il Vangelo del Nuovo Testamento: un messaggio non centrato sull’uomo e sui suoi bisogni, reali o immaginari, ma su Dio, il Suo regno e la Sua gloria. Abbiamo bisogno di recuperare e di comunicare il senso del “timore di Dio” che, la Bibbia ci insegna, è “principio di sapienza” (Proverbi 9:10).
Tutti temi che l’apostolo Paolo mette insieme in un classico brano in cui parla della nostra responsabilità di annunciare il vangelo di Dio:
“Consapevoli dunque del timore che si deve avere del Signore, cerchiamo di convincere gli uomini … l’amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e che egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro … Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio!”
Ecco il messaggio che dobbiamo prima accogliere per noi stessi, e poi annunciare con forza a un mondo che ha perso la strada e va brancolando in un buio sempre più fitto. “Siate riconciliati con Dio!” La scelta è tra la pace e la misericordia, ora, oppure “una terribile attesa del giudizio e l’ardore di un fuoco che divorerà i ribelli” nel giorno del giudizio (Ebrei 10:27). A noi uomini la scelta!
1 Gemme di Tozer, ed. CLC, Firenze, 1994, pag. 23.