SCARICA PDF di questo articolo
di Geoffrey Allen
Che la guarigione fisica fa parte del Vangelo e dell’opera salvifica di Cristo è una verità che, dopo lunghi secoli di oblìo, è ormai largamente accettata da cristiani e da chiese di ogni tipo.
Si moltiplicano le testimonianze di guarigioni prodigiose in risposta alla preghiera, le campagne di evangelizzazione in cui si prega per i malati e i libri che incoraggiano i credenti ad avere fede per la propria guarigione fisica e per quella degli altri. Si tratta senz’altro di un notevole recupero di una preziosa verità biblica. In fondo, non ha forse detto Gesù ai suoi discepoli nel “Grande mandato”: “Questi sono i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto: … imporranno le mani agli ammalati, ed essi guariranno” (Mc. 16:17-18)?
È vero che, lungo i secoli, i cristiani hanno sempre pregato in tempo di malattia, chiedendo a Dio il recupero della propria salute. (Anzi, è spesso il momento in cui si prega di più e con maggiore intensità …!) Sembra che ciò sia una reazione istintiva e universale alla perdita di quello che riteniamo, a ragione, uno dei nostri beni più preziosi. Ma una chiara enfasi sulla guarigione del corpo in relazione al Vangelo è spesso mancata.
Oggi, invece, si rischia di passare, semmai, all’estremo opposto: certi evangelisti sembrano porre quasi più in rilievo la guarigione del corpo che non la salvezza dell’anima, e certi credenti pregare di più per la salute fisica di amici e parenti che non per la loro conversione. Credo che ciò sia frutto, almeno in parte, dell’atmosfera culturale secolarizzata in cui ci troviamo a vivere. Sembra paradossale, ma è così: i cristiani più “spirituali”, i pentecostali e i carismatici, finiscono per propinare un Vangelo profondamente influenzato dalla mentalità del mondo!
Infatti viviamo in una società in cui, venendo a mancare la fede nella vita eterna, la maggior parte della gente vive con estrema angoscia la prospettiva della morte fisica, che è rimasta il grande tabù della nostra generazione. Di conseguenza, la salute fisica e la longevità diventano i beni supremi. I medici fanno di tutto per estendere la vita quanto più possibile, anche a costo di sofferenze atroci, un’agonia prolungata. Ai malati terminali si rifiuta di dire la verità sulla loro malattia. Anche il tema della pena di morte – prevista nella legislazione mosaica dell’Antico Testamento, e a quanto pare decretata nel patto di Dio con Noè, ancora in vigore – è diventato tabù, in quanto, se questa vita è tutto quello che abbiamo, allora toglierla diventa un male che nessuno ha il diritto di commettere.
Due vedute sui miracoli
Storicamente, ci sono state due posizioni diverse nella teologia cristiana sulle manifestazioni soprannaturali in generale e le guarigioni in particolare.
Per lungo tempo la convinzione più diffusa è stata che, essenzialmente, il miracoloso ha valore soprattutto di segno. Per la teologia cattolica, ad esempio, si richiedono delle manifestazioni “miracolose” come parte dei processi di “santificazione”. Per la teologia riformata, invece, sono segni soprattutto della venuta del Messia e del primo annuncio del Vangelo; tanto che si è sviluppato tutta una teologia “cessazionista”, che sostiene che i miracoli dovevano attestare solo la persona di Cristo, e che, una volta scritta la Bibbia, non ce n’è più bisogno. (È strano però che tali segni non servirebbero più oggi, quando c’è tanto scetticismo e incredulità proprio riguardo all’autenticità e autorità della Bibbia stessa …!)
L’altra prospettiva è che, al contrario, la guarigione è parte integrante del Vangelo: che la salvezza dell’uomo portata e annunciata da Cristo comprende non solo la salvezza dell’anima, ma anche il corpo, e anzi, si estende a tutte le sfere della vita umana per abbracciare anche la vita della famiglia, le relazioni sociali e, alla fine, tutto quanto l’universo.
Non dovrebbe essere controversa la conclusione, oggi, che entrambe le cose sono vere. Le guarigioni – soprattutto quelle spettacolari, istantanee e pubbliche – hanno effettivamente valore di “segni”, e come tali fanno parte e conferma della predicazione del Vangelo (e devono, proprio per questo motivo, continuare per tutti il tempo in cui il Vangelo viene predicato).
Salvezza completa
Ma, nello stesso tempo, la guarigione fa anche parte dello stesso Vangelo della salvezza. Dio si occupa non solo della “salvezza dell’anima”, ma anche della “salute del corpo”. “L’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile …”, è la preghiera dell’apostolo Paolo per i credenti di Tessalonica (1° Tess. 5:23).
È significativo, a questo riguardo, che lo stesso verbo greco sozein viene applicato indifferentemente, nel Nuovo Testamento, ad entrambi gli aspetti, anche se i traduttori hanno reso il significato, a seconda dei contesti, ora con “salvare”, ora con “guarire”. Per esempio, alla donna con il flusso di sangue che gli toccò il lembo della veste, Gesù disse: “Figliola, la tua fede ti ha salvata; va’ in pace …”; e al cieco Bartimeo: “Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc. 5:34, 10:52); in entrambi i casi il verbo è sozein, esattamente come in Efesini 2:8: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede …”.
La salvezza, infatti, è un concetto vasto e profondo, come lo è l’opera di Cristo. Essa comprende il recupero di tutto ciò che è andato perduto a causa della ribellione dell’uomo contro Dio. Non solo il perdono dei peccati – anche se questo è la base di tutto – e quindi la riconciliazione con Dio e la certezza della vita eterna con Lui. Ma anche il ripristino di tutto ciò che quella disubbidienza ha comportato, fino alla riconciliazione finale dell’intero creato con il suo Creatore (Rom. 8:19-21).
Poiché la sofferenza, la malattia e la morte sono conseguenze del peccato, la loro sconfitta e distruzione fanno parte della redenzione in Cristo. Ecco perché la guarigione dei malati, al pari della liberazione degli indemoniati, è segno e dimostrazione della venuta del Regno (Lc. 11:20, Atti 10:38, ecc.).
Che poi la guarigione fisica faccia parte della redenzione operata da Gesù sulla croce, è dimostrata conclusivamente dal fatto che viene menzionato esplicitamente nella grande profezia del “Servo sofferente”: “Erano le nostre malattie che egli portava, erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato … il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui e grazie alle sue ferite noi siamo stati guariti” (Is. 53:4-5).
Ora, alcuni sostengono che questo brano non si riferisca alle “malattie” e ai “dolori” fisici, ma che si riferisca alla “malattia” spirituale del peccato. E certamente questo è una parte del significato. Ma che il riferimento è anche alle malattie fisiche è dimostrato senz’ombra di dubbio dalla citazione di questo brano nel Nuovo Testamento:
“Poi, venuta la sera, gli presentarono molti indemoniati; ed egli, con la parola, scacciò gli spiriti e guarì tutti i malati, affinché si adempisse quel che fu detto per bocca del profeta Isaia: «Egli ha preso le nostre infermità e ha portato le nostre malattie»” (Matt. 8:16-17).
La redenzione, quando?
Gesù Cristo è dunque morto anche per redimerci dalle conseguenze del peccato in termini di malattie, infermità e sofferenza fisica. Ma – ecco la domanda cruciale – quando ha effetto questa redenzione?
La salvezza, o redenzione, è stata una volta per sempre compiuta da Gesù quando è morto in croce per noi. Ma per quel che riguarda la sua attuazione nella nostra vita, ci sono tempi diversi. Infatti il nostro spirito è stato già salvato dagli effetti del peccato – cioè, la separazione dalla comunione con Dio – nel momento in cui abbiamo creduto col cuore e siamo “nati di nuovo” dallo Spirito Santo. È per questo aspetto che la Bibbia dice che “siamo stati salvati” e che siamo già in possesso della vita eterna (Ef. 2:8, Gv. 5:24).
La nostra anima, invece – cioè la nostra personalità, composta dalla mente, le emozioni, quello che costituisce la nostra persona interiore – è in un processo di salvezza progressiva (chiamata “santificazione”). È in questo senso che la Parola di Dio ci esorta: “Adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore …” (Fil. 2:12), e ancora: “Ricevete con dolcezza la parola che è stata piantata in voi, e che può salvare le anime vostre” (Giac. 1:21).
E il corpo? Per quel che riguarda la parte fisica del nostro essere, purtroppo, dobbiamo aspettare ancora! “Fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo” (Rom. 8:22-23). Solo al glorioso giorno del ritorno di Cristo, “al suono dell’ultima tromba … i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo trasformati … questo corruttibile rivestirà incorruttibilità e questo mortale rivestirà immortalità” (1° Cor. 15:52-53).
E fino allora “gemiamo”: restiamo soggetti, purtroppo, a tutti gli effetti sul nostro fisico della caduta dell’uomo. Il nostro corpo invecchia perché “la morte opera in noi” (2° Cor. 4:12); rimaniamo pertanto soggetti alle infermità e alle malattie che sono frutto dell’allontanamento da Dio.
Immortali?
Se così non fosse, dovremmo concludere – e infatti, qualcuno con più zelo che conoscenza lo ha fatto – che i cristiani, se solo hanno fede a sufficienza, non dovrebbero più morire! E, senza arrivare a un simile estremismo, ci sono dei credenti che sostengono, non solo di avere fede per non ammalarsi mai (purtroppo succede loro spesso, col passare degli anni, un duro scontro con la realtà … !), ma si aspettano anche di arrivare alla fine dei loro giorni e morire … senza una causa di morte!
Dietro a tali posizioni sta, non solo una teologia semplicistica, ma anche, spesso, una mentalità piuttosto “infantile” della vita cristiana: quella che Juan Carlos Ortiz ha chiamato “il vangelo delle offerte”. Cioè, si guardano soprattutto i benefici personali che è possibile avere da Dio; ed è naturale che la promessa della salute perenne e dell’esenzione dalle sofferenze è ai primi posti fra i desideri di tutti noi.
Una posizione più matura, invece, sarebbe quella espressa dall’apostolo Paolo. Il suo desiderio è “che Cristo sia glorificato nel mio corpo, sia con la vita, sia con la morte”, ed aggiunge: “Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno” (Fil. 1:20-21).
Se Cristo sarà glorificato dal servizio che io posso renderGli con la pienezza delle mie forze e della mia salute, allora devo usare tutta la mia fede (oltre alle comuni precauzioni naturali) per recuperare e conservare quella salute. Ma se Egli sarà maggiormente glorificato nella debolezza e nella sofferenza – sia perché io impari la pazienza, e magari a cercare Dio con maggiore intensità, sia perché impari a identificarmi e a simpatizzare meglio con i sofferenti, sia perché sarà utile la mia presenza nell’ospedale per testimoniare Cristo con le parole e senza parole – così sia.
Identificazione
Non siamo chiamati a vivere al di sopra delle sofferenze comuni all’umanità, che comprendono anche l’esperienza della malattia e della debolezza fisica. (E se così fosse, le persone sarebbero tentate di convertirsi soltanto per godere egoisticamente di un simile beneficio.) Piuttosto siamo chiamati, come Cristo, a identificarci con la condizione degli uomini ai quali ministriamo. È normale, dunque, che facciamo anche noi esperienza della sofferenza e della malattia; anche se, poi, Dio è misericordioso e spesso ci concede anche la guarigione.
La nostra ambizione deve essere quella di resistere alla minaccia del “nemico” che è la morte fisica, e dell’infermità che ne è il principio, fino a quando non avremo compiuto tutta l’opera per la quale siamo stati chiamati. È significativa la testimonianza di Paolo a questo proposito (anche se si tratta, nel caso specifico, di una minaccia di condanna a morte piuttosto che di una malattia fisica). Egli scrive: “Da una parte ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio; ma, dall’altra, il mio rimanere nel corpo è più necessario per voi”. Così arriva a una decisione: “Ho questa ferma fiducia: che rimarrò e starò con tutti voi per il vostro progresso e per la vostra gioia nella fede …” (Fil. 1:23-25). Per mezzo della fede, comanda sulle circostanze della vita – apparentemente al di là del suo controllo – per determinare quale sarà il corso della propria vita.
Quando invece ha adempiuto la sua chiamata, in circostanze analoghe scrive: “Sto per essere offerto in libazione, e il tempo della mia partenza è giunto. Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà …” (2° Tim. 4:6-8).
Dobbiamo esercitare la nostra fede nella vittoria di Cristo, non per esimerci dalle prove e dalle sofferenze, ma – come fece anche Lui – per non essere messi fuori combattimento prima di avere compiuto tutta l’opera per la quale il Padre ci ha mandati.
Buone notizie
C’è però una “buona notizia” (= Vangelo!) anche per quel che riguarda il nostro corpo mortale. Gesù è venuto annunciando la venuta del Regno di Dio, non solo a parole, ma anche con i “segni” della salvezza: guarigioni, liberazioni, miracoli di benedizione e di benessere. E dà incarico ai suoi seguaci di portare avanti la stessa opera: “Predicate e dite: “Il Regno dei cieli è vicino”. Guarite gli ammalati, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni …” (Matt. 10:7-8).
È vero che, in questa vita, ogni guarigione è pur sempre una “toppa” messa al vestito vecchio e logoro che è il nostro corpo mortale. Tutti i guariti dalla grazia dello Spirito Santo sono soggetti ad ammalarsi di nuovo; di tutti coloro che Gesù ha guarito nel corso del suo ministero terreno, nessuno è rimasto in vita fino ad oggi! Perfino Lazzaro, riportato in vita dopo quattro giorni nella tomba, è poi morto un’altra volta. Infatti non bisogna mai confondere una simile “resurrezione” – che è semplicemente la guarigione portato allo stadio estremo – con la Resurrezione vera e propria, quella del Signore Gesù Cristo, finora unica “primizia” (1° Cor. 15:20,23) della resurrezione generale dei morti che si avrà solo con il Suo ritorno. Nessun altro, fino ad oggi, ha “rivestito l’immortalità”: solo Gesù, “risuscitato dai morti, non muore più” (Rom. 6:9).
Ma, detto questo, è pure vero che per mezzo del Vangelo ci viene concesso di “gustare … le potenze del mondo futuro” (Ebr. 6:5). Non possediamo ancora l’immortalità, il nostro corpo è ancora in attesa della sua “redenzione”, e tuttavia qualcosa della salvezza che viene da Cristo lo tocca. E – come per tutti gli aspetti della salvezza – anche questo viene ricevuto per mezzo della fede.
È così che possiamo non solo chiedere e ricevere guarigione quando ci ammaliamo, ma – quel che è di gran lunga migliore! – ricevere da Dio anche forza e salute soprannaturale per non ammalarci! “La prevenzione è meglio della cura”, dice saggiamente il proverbio; e tante volte Dio è così buono, non solo di guarirci quando siamo malati, ma anche da preservarci in salute! Credo che a questo si riferiscono le parole dell’apostolo Paolo quando scrive: “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo Gesù dai morti vivificherà anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rom. 8:11).
L’annuncio del Regno
Ma non è solo per noi questo “lieto annuncio”. La predicazione del Vangelo è intesa ad essere accompagnata da “segni” visibili e tangibili (Mc. 16:17-18) – guarigioni, miracoli, liberazioni – che dimostrino a un mondo che, proprio perché vive nella “morte spirituale”, separato dalla vita dello Spirito, crede molto più facilmente in ciò che può vedere e toccare che non nel miracolo più grande ma invisibile che è quella della salvezza e della redenzione interiore. Le guarigioni miracolose dimostrano, da una parte, la signoria di Cristo sul creato – Egli comanda alle tempeste, ma anche alle febbri – e dall’altra, l’amore divino di un Dio che ha compassione delle Sue creature e desidera alleviare le loro sofferenze.
E, proprio perché Dio desidera dimostrare questo Suo amore –”la bontà di Dio ti spinge al ravvedimento” (Rom. 2:4) – risulta che sono proprio i non credenti a ricevere più spesso e più facilmente le guarigioni divine. Noi che crediamo non abbiamo lo stesso bisogno che Dio ci dimostri la Sua bontà perché abbiamo già gustato quanto Egli sia buono, perché viviamo la Sua salvezza e la gioia dello Spirito Santo dentro di noi. E poi, talvolta Dio si serve della malattia per correggerci (1° Cor. 11:29-31) e per richiamarci a Sé quando ce ne siamo allontanati.
Ma per la redenzione completa e definitiva della nostra parte fisica dobbiamo aspettare ancora.
Io credo che la comprensione di questa verità ci aiuta grandemente nell’elaborazione di una prospettiva biblica ed equilibrata sulla guarigione fisica. Come per altri aspetti della salvezza, ci troviamo oggi a vivere la tensione tra il “già” e il “non ancora” del regno di Dio. “Gemiamo” mentre aspettiamo ancora il compimento della salvezza fisica; eppure nello stesso tempo, Dio ci dà grazia di “pregustare” la piena redenzione che avremo solo nel giorno della resurrezione dei morti.
È in questa ottica che gridiamo: “Maranatha – Vieni, Signore!” Vieni a completare la redenzione di cui aspettiamo ancora il pieno compimento! Vieni a completare la redenzione del nostro corpo!