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di Arthur Wallis
“Dissodate il vostro campo non coltivato, perché è tempo di cercare l’Eterno, finché egli venga e faccia piovere su di voi la giustizia” (Osea 10:12)
In questo brano, il profeta ci illustra la necessità che il cuore sia preparato perché si possa pregare con efficacia.
Che cos’è un “campo non coltivato”? Non è un deserto: queste parole non si applicano quindi a chi non è nato di nuovo. Né indica necessariamente un terreno che è tornato improduttivo per essere stato volutamente abbandonato: non si parla dunque di chi ha rinnegato la fede. È semplicemente un terreno che in passato ha portato frutto, ma che ora è diventato quasi inservibile per mancanza di coltivazione. Vi si potrebbe seminare in abbondanza; il cielo potrebbe riversarvi piogge copiose; ma a che servirebbe, finché il terreno rimane incolto?
Guardando lo stato della chiesa oggi, e la condizione dei nostri stessi cuori, dobbiamo riconoscere l’esattezza di questa immagine. La più grande barriera al risveglio è sicuramente costituita dalle vaste distese di terra incolta nei cuori dei cristiani.
Esaminiamo ora più attentamente le caratteristiche del terreno incolto. Prima, è duro. Battuta dai piedi degli uomini e dalle zampe degli animali, la terra ha formato una crosta dura e compatta. Ecco come Dio vede i cuori divenuti insensibili al peccato che rattrista lo Spirito Santo e lenti a rispondere alla sua “voce dolce e sommessa”; freddi verso il Signore e il Suo popolo e indifferenti verso coloro che periscono.
Tali cristiani sono caratterizzati dal formalismo nell’adempiere i doveri spirituali e da una fredda ortodossia nel contendere per la fede; essi difendono in maniera aggressiva e polemica i dettagli della dottrina e si attaccano alle vecchie tradizioni. Sono coloro che “colano il moscerino e inghiottiscono il cammello” (Mt. 23:24), che “pagano la decima della menta, della ruta e di ogni erba, e trascurano la giustizia e l’amor di Dio” (Lc. 11:42). Professano molto e possiedono poco; hanno tutta la terminologia giusta ma poco dell’esperienza giusta.
In questo stato, i credenti possono ascoltare in continuazione la predicazione della Parola, ma non c’è frutto: come nella parabola, il seme resta in superficie ed è subito divorato dagli emissari del Diavolo (Mt. 13:4). Tali credenti “cercano sempre d’imparare, ma non possono mai giungere alla conoscenza della verità” (2° Tim. 3:7). È questo forse il motivo più importante perché tanta predicazione produce così poco frutto. “Avete seminato molto, e avete raccolto poco” (Aggeo 1:6).
Incredulità
La durezza del cuore si rivela anche con l’incredulità di fronte alla manifestazione della potenza divina. Marco ne racconta quattro episodi nel ministero di Gesù (3:5; 6:52; 8:17; 16:14), ed è significativo che in tre di queste occasioni l’incredulità si manifestava nei Suoi stessi discepoli. Stiamo dunque attenti perché egli non debba dire anche a noi: “Voi errate perché non conoscete la potenza di Dio”. Ricordando l’esempio degli Israeliti, che non poterono entrare nella Terra Promessa perché i loro cuori furono induriti dall’incredulità e dalla disubbidienza, dobbiamo dare ascolto alle parole dello Spirito Santo: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori” (Ebr. 3:15).
In secondo luogo, la terra incolta è piena di erbacce. Uno degli scopi principali della coltivazione è di eliminare le piante selvatiche che tendono a soffocare quelle seminate. “Spine e triboli” fanno parte della maledizione della Terra e simboleggiano il peccato. Gesù parla di un terreno in cui crebbero delle spine e soffocarono il buon seme. Là dove l’anima non viene coltivata con diligenza, è certo che abbonderanno spine e triboli (Prov. 24:30-31).
È ora che smettiamo di scusare i nostri peccati, chiamandoli “mancanze” o “debolezze” o attribuendoli al nostro temperamento o all’ambiente in cui, e di giustificare la nostra carnalità e il nostro materialismo indicando gli altri che sono simili a noi. Coloro che “si misurano secondo la loro propria misura e si paragonano tra di loro stessi, mancano d’intelligenza” (2° Cor. 10:12). Dobbiamo guardare i nostri peccati onestamente alla luce della Parola di Dio, considerarli come fa Lui e fare i dovuti conti alla Sua presenza.
In terzo luogo, la terra incolta è necessariamente infruttuosa. Il frutto che Dio si aspetta dal credente non consiste in attività religiose, non importa con quanto zelo esse vengono eseguite, ma nel carattere di Cristo descritto in Galati 5:22: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo”. Il frutto è la santità espressa praticamente nei pensieri, nelle parole e nelle opere; è la somiglianza a Gesù Cristo.
Tutto ciò che Dio opera nella nostra vita è inteso a produrre “frutto”, “più frutto”, “molto frutto” (Giov. 15:2,15). Ma quanto ne trova? Pietro ci spiega chiaramente come evitare di diventare un terreno infruttuoso: “mettendoci da parte vostra ogni impegno, aggiungete alla vostra fede la virtù; alla virtù la conoscenza; alla conoscenza l’autocontrollo; all’autocontrollo la pazienza …”, e conclude: “Perché se queste cose si trovano e abbondano in voi, non vi renderanno … sterili nella conoscenza del nostro Signore Gesù Cristo”.
Rompere le zolle
Se troviamo che il nostro cuore corrisponde a questa descrizione di un terreno incolto, dobbiamo accogliere l’esortazione: “Dissodate il vostro campo non coltivato”. È pericoloso cercare di fare con i nostri sforzi ciò che Dio ha promesso di fare per noi, ma è altrettanto pericoloso aspettarci che Egli faccia sovranamente ciò che ha detto a noi di fare. Le Scritture sono piene dell’enfasi sulle responsabilità dei credenti: “Pulite le vostre mani, o peccatori, e purificate i vostri cuori, o doppi d’animo!”, scrive Giacomo (4:8), e Paolo: “Purifichiamoci da ogni contaminazione di carne e di spirito, compiendo la nostra santificazione nel timore di Dio” (2° Cor. 7:1).
“Dissodare il campo” del nostro cuore significa ridurlo a uno stato umile e contrito, perché è questo il solo tipo di cuore che Dio possa ravvivare. “Così dice l’Alto e l’Eccelso, che abita l’eternità e il cui nome è ‘Santo’: «Io dimoro nel luogo alto e santo, e anche con colui che è contrito e umile di spirito, per ravvivare lo spirito degli umili, per ravvivare lo spirito dei contriti»” (Is. 57:15).
Umiltà
L’orgoglio fu la primissima forma in cui il peccato si manifestò nell’universo, quando Satana si ribellò a Dio (Is. 14:12-14; Ezech. 28:12-17). Fu con la tentazione all’orgoglio che Satana sedusse Eva (Gen. 3:6), diffondendo così quel veleno in tutta l’umanità. L’orgoglio si manifesta con l’esaltazione di se stessi e la giustificazione delle proprie azioni davanti a Dio e all’uomo. È l’influenza subdola che si nasconde dietro molte delle opere della carne.
L’orgoglio porta presto a disubbidire a Dio. Quando è frustrato o umiliato, apre la strada all’invidia e all’amarezza. Per giustificarsi, non esita a calunniare e a sparlare. Per raggiungere i suoi scopi, ricorre facilmente all’ipocrisia e all’inganno. L’orgoglio è la radice di ogni genere di disordini e di divisioni fra il popolo di Dio. È forse il più grande nemico del risveglio … e il più difficile da diagnosticare e da sradicare. La cosa più ingannevole del mondo è il cuore umano: solo Dio può conoscerlo veramente (Ger. 17:9-10). L’orgoglio vi è profondamente intessuto, e solo lo Spirito di Dio è in grado di illuminarlo. È inutile cercare di scrutare da soli il nostro cuore; possiamo solo, come Davide, gridare a Dio: “Investigami, o Dio, e conosci il mio cuore; provami e conosci i miei pensieri; e vedi se vi è in me alcuna via iniqua” (Sal. 139:23-24).
Molte delle nostre afflizioni – spirituali, mentali e fisiche – non sono altro che la potente mano di Dio che cerca di abbassarci davanti a Lui. “Ricordati di tutta la strada che l’Eterno, il tuo Dio, ti ha fatto fare … per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che c’era nel tuo cuore” (Deut. 8:2). Tali esperienze, però, possono renderci docili oppure indurirci; la loro utilità dipende interamente dall’atteggiamento che noi assumiamo.
Chi resiste alla correzione divina deve ricordare che Egli è in grado di resistere molto più a lungo di noi: “Dio resiste ai superbi e dà grazia agli umili” (Giac. 4:6). Non conviene dunque rimandare: ora è il momento per confrontarsi con ogni tendenza orgogliosa che troviamo in noi stessi. “Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché egli vi innalzi a suo tempo” (1° Pt. 5:6).
Umiliarsi non vuol dire prendere un posto inferiore a quello che ci spetta, ma piuttosto assumere la posizione giusta davanti a Dio: “non avere di sé un concetto più alto di quello che si deve avere, ma … un concetto sobrio” (Rom. 12:3). Significa occupare il posto che ci si addice come creature davanti al Creatore; come peccatori davanti al nostro Dio e Salvatore; come figli davanti al Padre celeste.
È questo il primo passo, difficile ma indispensabile, verso il risveglio; e a chi non è disposto a farlo conviene smettere di pensarci e di parlarne. “Se il mio popolo, sul quale è invocato il mio nome, si umilia … io ascolterò … perdonerò … e guarirò” (2° Cron. 7:14). Da sempre, è questo il cammino verso la benedizione. Solo quando il popolo di Dio si umilia, Dio l’esalterà con il risveglio.
Dio ravviva lo spirito non solo “degli umili”, ma anche “dei contriti”. Quando assumiamo la giusta posizione davanti a Dio, Egli può plasmarci come desidera fare. Al cuore che si umilia davanti a Dio viene una nuova rivelazione dell’infinita santità di Dio, dell’estrema peccaminosità del peccato e dell’amore illimitato che si è espresso nel sacrificio del Redentore.
La crosta dura del cuore deve essere spezzata affinché l’acqua del risveglio possa trovare dei canali pronti. La parola ebraica tradotta con “contrito” ha il significato base di “contuso” o “spezzato”. Nel cuore contrito, tutto ciò che è duro come roccia, resistente alla volontà di Dio, è stato ridotto in polvere: “Toglierò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ezech. 36:26).
Un cuore sensibile
Ecco dunque la prima grande condizione del risveglio: un cuore la cui durezza è stata spezzata, sensibile a ogni suggerimento dello Spirito, che non appena conosce la volontà di Dio, la fa. Si può calpestare un terreno incolto senza lasciare traccia: i piedi non vi fanno alcuna impressione. Ma dopo che sono passati l’aratro e l’erpice, la terra diventa tenera e soffice e il piede lascia una chiara impronta. Quando i nostri cuori sono teneri, sensibili, aperti a ogni tocco dello Spirito di Dio, possiamo essere sicuri che il campo è stato dissodato.
Solo un cuore così preparato può pregare con efficacia. Un cuore del genere, in piena sintonia con quello dell’Eterno, fu quello di Nehemia. Lo vediamo nel primo capitolo del suo libro, quando gli giunge la notizia, nel remoto luogo dell’esilio, della desolazione di Gerusalemme. “I superstiti che sono scampati dalla cattività sono laggiù nella provincia, in grande miseria e obbrobrio; inoltre le mura di Gerusalemme sono piene di brecce e le sue porte consumate dal fuoco” (v.3). Ecco la situazione che provocò Nehemia a darsi a una preghiera così intensa.
Visione del bisogno
Per intercedere con efficacia, è indispensabile una chiara visione del bisogno. Che cosa commosse così profondamente quell’uomo di Dio? Prima, vide il popolo di Dio “in grande miseria e obbrobrio”. Coloro che un tempo furono stati gloriosamente liberati dalla mano potente di Dio, si ritrovavano di nuovo deboli e ridotti in schiavitù. Fu questo il rimprovero che Nehemia dovette continuamente ascoltare durante le sue imprese: “Ci schernirono e ci disprezzarono”. “Che cosa stanno facendo questi rammolliti Giudei?” “Ascolta, o Dio nostro, perché siamo disprezzati!” (2:19; 4:2,4).
Poiché erano il popolo di Dio, chiamato con il Suo nome, ogni loro obbrobrio era anche Suo. Era in ballo la gloria di Dio. Così è anche oggi. Dio è geloso per il proprio grande nome perché la chiesa, che doveva essere “bella come la luna, pura come il sole, tremenda come un esercito a bandiere spiegate” (Cant. 6:10), troppo spesso si ritrova in schiavitù e afflizione, disprezzata e derisa dal mondo.
Poi, Nehemia seppe che “le mura di Gerusalemme erano piene di brecce”. Il muro è la linea di confine: separa ciò che è fuori da ciò che è dentro. Una città senza mura è indifesa, facile preda di ogni nemico. E in gran misura è vero oggi che le mura della santa città sono state distrutte: la chiesa ha perso la sua differenziazione, è senza difese e vulnerabile a ogni attacco di Satana.
Infine, “le sue porte erano consumate dal fuoco”. Le porte erano la chiave per il controllo della città. Là sedevano i capi, gli anziani, i nobili e i giudici (Deut. 22:15, Giobbe 29:7-10), Prov. 31:23). Le porte arse significavano che l’autorità e il potere erano distrutti e il popolo soggiogato.
Ai tempi della chiesa primitiva, le porte della città erano intatte. Il popolo di Dio conosceva l’autorità che aveva nel nome di Gesù e l’usavano pienamente nella predicazione, nella preghiera e nelle opere. Ma quanto poco la si vede esercitare oggi!
Prima delle possibilità, occorre vedere chiaramente il bisogno del momento. Molti credenti non sono pronti a guardare in faccia la realtà: la condizione della chiesa è talmente quella del loro stesso cuore che rimangono indifferenti davanti a entrambi. Sono miopi, quasi ciechi, e il Signore dice loro: “Tu non sai che sei infelice fra tutti, miserabile, povero, cieco e nudo” (Apoc. 3:17). Abbiamo bisogno di uomini come Nehemia che alzino la voce per gridare: “Venite, ricostruiamo le mura di Gerusalemme, e così non saremo più nell’obbrobrio!” (Neh. 2:17).
Reazione al bisogno
“Come udii queste parole, mi posi a sedere e piansi; quindi feci cordoglio per vari giorni, e digiunai e pregai davanti al Dio del cielo” (Neh. 1:4). Il cuore si rivela nella reazione al bisogno spirituale. Il Salvatore non poté vedere le moltitudini che si sviavano come pecore senza pastore senza essere mosso a compassione; né poté guardare senza piangere la Gerusalemme che ne aveva ascoltato le parole e visto le opere potenti, ma che aveva rigettato il suo messaggio.
Così era anche il cuore di Nehemia. Altrimenti avrebbe potuto mettere a tacere la coscienza e assopire i sentimenti con il pensiero che Gerusalemme era distante, che a Susa si stava bene e che la desolazione di Sion non era colpa sua, e allora perché preoccuparsene? Avrebbe potuto argomentare che la situazione era la conseguenza del peccato degli altri e che spettava a loro rimediare. Avrebbe potuto rafforzare l’indifferenza considerando che i profeti avevano predetto il giudizio di Dio sulla loro infedeltà, per cui non c’era speranza di recupero o di risveglio fino alla venuta del Messia.
Ma quanto fu diverso da questo il suo atteggiamento! Poiché il suo cuore era in sintonia con quello di Dio, non poté considerare le afflizioni di Gerusalemme senza fare cordoglio, né amarla senza piangere. La preghiera efficace richiede un cuore tenero e compassionevole, una profonda sollecitudine per la gloria di Dio e il bene del Suo popolo. Quando la nostra preghiera è fredda e formale, non dobbiamo aspettarci che Dio operi con potenza. È colui che “va piangendo” che “tornerà con canti di gioia, portando i suoi covoni” (Sal. 126:6).